Hai presente il primo allenamento della settimana dopo che la domenica hai perso una partita?
Osserva bene i giocatori quando entrano in palestra.
Ciascuno ha la sua reazione, questo è chiaro. Ma se stai attento ai loro sguardi, potrai notare una di queste due reazioni:
- La prima è di frustrazione, questo atteggiamento riguarda quelli che magari avevano un certo grado di aspettative sulla partita.
- Il loro sguardo è basso, il morale pure, sembrano cani bastonati.
- La seconda reazione è di rabbia, e riguarda la maggior parte.
- Non vedono l’ora che si giochi di nuovo, perché hanno dentro di loro il sacro fuoco della vendetta (sportiva, s’intende), e desiderano dimostrare che la sconfitta della domenica precedente era solo un episodio e vogliono riscattarsi.
Il significato della sconfitta sta tutto dentro questa parola: riscatto.
Riscatto è un termine che ha a che fare direttamente con la motivazione, ovvero quella cosa che, da sola, è in grado di spostare montagne. Non c’è spinta più forte di questa, per migliorarsi.
Riscatto è una parola di fuoco. Contiene ogni elemento che è in grado di spingere i propri sforzi ad un livello inimmaginabile di prestazione.
Se un giocatore potesse attingere a questa forza anche dopo aver vinto, beh, nel mondo ci sarebbero tanti Kobe Bryant.
E invece di gente così ne nasce una ogni cinquant’anni.
E qui entriamo nella parte opposta del discorso:
gli atteggiamenti inconsci determinati da una vittoria.
È rarissimo che un giocatore che abbia vinto una o più partite di fila, abbia quella rabbia agonistica, quella giusta energia mentale (è di questo che stiamo parlando se non si è ancora capito) per affrontare la preparazione settimanale con lo spirito di chi chiede a sé stesso di arrivare sempre un passo avanti.
Certo, dirai, la vittoria ti regala una cosa impagabile, che consiste in quella sicurezza, quella freddezza e quella confidenza che danno maggiore fiducia nei propri mezzi, e che forse, se hai accumulato “self confidence”, quando la partita si fa decisiva, forse avrai anche un piccolo vantaggio nei confronti di chi, suo malgrado, ha più paura di rivedere il mostro, di chi teme che dentro quel baratro si possa sprofondare, una volta ancora.
Prendiamo il tennis.
Altro sport con una spiccata connotazione mentale.
Non ho le statistiche aggiornate, ma giurerei che, in un match con valori che sono pressappoco equivalenti da un punto di vista tecnico, il giocatore che vince il primo set, il 50% delle volte perde il secondo, e la ragione sta sempre dentro quelle due paroline magiche: motivazione e senso di riscatto.
Il giocatore che ha appena portato a casa la prima partita subisce un inconscio calo di tensione, una specie di impulsivo appagamento, mentre il giocatore che ha perso il primo set è costretto a raddoppiare gli sforzi per restare in partita.
Unisci magicamente questi elementi e il gioco è bello che fatto.
Uno a uno e palla a centro.
Non so se esiste una ricetta per evitare cali di tensione in caso di vittoria né per escludere quel senso di insicurezza che deriva da una sconfitta.
E tutto questo porta ad un innalzamento della preparazione finalizzata alla performance che coinvolge tutti: giocatori, staff, società.
Uno dei possibili rimedi sarebbe riuscire ad azzerare ogni contraccolpo psicologico derivante dal risultato e concentrarsi invece solo sulla prestazione.
Questa è l’unica àncora di salvezza per restare concentrati sul mezzo (allenarsi al meglio) e non sul fine (risultato). Ma è obiettivamente una cosa assai difficile da fare, per il cervello.
Non a caso, nel periodo in cui ho avuto il piacere di allenare, ripetevo spesso
“che una squadra vincente è quella che si allena sempre con lo spirito di una squadra che ha perso“.