partecipare o vincere

Vincere o partecipare?

Il tabellone è lì, impossibile non guardarlo.

La cosa curiosa dei tabelloni segnapunti (e segnatempo) è che se potessero registrare gli sguardi, diventerebbero incandescenti a mano a mano che la partita volge verso la fine.

Se fossi un esperto in matematica direi che il tabellone lo si guarda in maniera inversamente proporzionale allo scorrere del tempo.

I giocatori, il pubblico, gli arbitri, gli ufficiali di campo (quelli più di tutti, per ovvie ragioni) sembra abbiano…

…tre differenti modalità di sguardi:

  • il primo per l’evento agonistico in sé che si svolge sul campo,
  • il secondo per il tabellone,
  • il terzo per il tavolo dei giudici (a cui ci si interfaccia per le operazioni amministrative della partita).

Ebbene sì, anche una partita ha le sue pratiche burocratiche da espletare.

Il tabellone

Eppure quel tabellone che fa sospirare e penare, dannare e gioire, quei piccoli cristalli rossi che si illuminano formando sostanzialmente numeri, tutta quella roba lì è un grande ingannatore.

Tabellone

Non perché sia bugiardo in sé (non c’è cosa più veritiera dei numeri, com’è noto), ma perché quel tabellone,

se si rischia di fare in modo che sia l’unico a decretare “la polvere o l’altare”, beh quella sì che può essere una cosa ingannevole.

Il risultato finale

Sto parlando del risultato finale.

Quale unico ed assoluto giudice di ogni valutazione ex post di una prestazione?

E sto anche cercando (e sarà impresa non poco faticosa) di dimostrare che quel tabellone deve iniziare ad avere un’importanza relativa e non già assoluta nelle valutazioni di uno staff tecnico e di una società circa la performance della squadra.

Va bene, lo ammetto che la questione è spinosa assai e che investe direttamente la vecchia dicotomia tra fare sport per il gusto di farlo e farlo esclusivamente per vincere.

E’ esattamente il metro con cui si valuta lo sport semiprofessionistico e professionistico.

È questione spinosa anche perché deve ribaltare uno degli assiomi più antichi dello sport e cioè che quest’ultimo è vero solo in funzione dei risultati e che nulla conta al di fuori di quelli, che chiunque viene valutato per quanto ha vinto, eccetera eccetera.

Che se mi permettete, questa è solo una delle variabili in gioco (importante certo, ma ce ne sono anche delle altre).

Quante volte:

  • ci siamo sentiti dire che la nostra squadra meritava di vincere?
  • il pubblico ci ha applauditi anche dopo una sconfitta?
  • gli allenatori avversari si sono sinceramente complimentati per la prestazione fatta anche quando siamo usciti dal campo con le pive nel sacco?
La formalità

Orbene, il mio tentativo da queste colonne sarà tutto teso a dimostrare che tutta quella roba lì, che è accaduta a tutti, certamente anche più di qualche volta, è tutt’altro che formale e che la vittoria non è assolutamente l’unico parametro di valutazione per arrivare a definire se la nostra programmazione, la nostra conduzione di una gara e – purtroppo – non l’epilogo della stessa non sono da buttar via soltanto perché alla fine il punteggio ci vede sconfitti.

Ovvio considerare che se abbiamo perso ci manca ancora qualcosa, ma facciamo veramente attenzione ogni volta ad entrare nel merito della prestazione per sottoporla ad una attenta scannerizzazione che riguarda i quaranta minuti di gioco e non, magari, l’ultimo sfortunato episodio.

Proviamo anche a mettere in atto un’altra strategia.

Quel tabellone fatto di led luminosi rossi che cambiano vertiginosamente con il variare del punteggio, dei tempi di gioco e dei falli, proviamo a guardarlo un po’ meno spesso.

Quel tabellone ci condiziona tremendamente, inconsciamente, subliminalmente.

Faccio un esempio.

A inizio terzo quarto siamo avanti di venticinque:

che effetto questa cosa produce sulle nostre emozioni agonistiche, nella stragrande maggioranza dei casi?

Ritengo che il tabellone sia paradossalmente un nemico più della squadra che è avanti nel punteggio di quella che è in svantaggio.

Quei numeri dicono cose che possono entrare prepotentemente in quella delicata cosa che sono le motivazioni agonistiche che molto spesso spostano gli equilibri con la stessa facilità con cu si ribalta la famosa “inerzia”.

Ovvero quella miscela chimica e psicologica che nessuno ha mai capito fino in fondo ma che tutti gli allenatori conoscono e la “sentono” nell’aria prima che la situazione venga poi di fatto ribaltata sul campo anche se fino a pochi minuti prima il risultato sembrava aver preso una direzione precisa.

Conclusione

 E allora, per concludere, qui nessuno vuole scomodare De Coubertin e assecondare quel suo cavalleresco e assai poco attuale aforisma,

in un’epoca nella quale, non solo nello sport, tutti vogliono spudoratamente vincere, sempre e comunque, con ogni mezzo, perfino quelli illeciti.

Tutto si giustifica nella moderna società della competizione sull’altare del “vincere e vinceremo”. (Duce, ci scusi la citazione).

Eppure sento che la vera e profonda ragione per giudicare cosa siamo veramente, cosa abbiamo realizzato veramente in quella partita, cosa serve veramente per trasformare quel granello di sabbia che è mancato nella valanga che occorre per superare la corrente:

sta nel superare il senso del punteggio decretato dal tabellone quando termina la sua corsa e dice 00:00.

Due considerazioni finali
  • La prima è che nessuno gioca mai a perdere e tutto questo non riguarda affatto l’aspetto delle giustificazioni o degli alibi per una sconfitta
    • quella sì, che sarebbe una cosa esecrabile.
  • La seconda è una parziale correzione della storia, ovvero del detto di De Coubertin e del senso che voleva dire.

Quel detto non è affatto farina del suo sacco: lo pronunciò per primo nella storia un filosofo greco che non avrebbe mai detto una cosa così scontata, perché quel filosofo disse in realtà:

L’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente”.

Spirito vincente

E credetemi, meglio di questa frase per spiegare tutto quello che volevo dire in queste righe, non potevo trovare.

di Dino De Angelis

Copertina Peer education

Educazione tra pari

PEER EDUCATION

Non insegno mai nulla ai miei allievi cerco solo di metterli in condizione di poter imparare”.

Albert Einstein

Gli insegnanti hanno il compito fondamentale di dare di più a chi ha momentaneamente di meno.

Maestro deriva da magister che a sua volta discende da magis che significa:

gli studenti hanno bisogno di qualcuno che gli dia di più.

Un facilitatore che in modo positivo li…

…accompagni nella costruzione dei loro saperi non dando niente per scontato.

Spesso nelle scuole si adottano metodi di apprendimento dove si mettono gli studenti in competizione, vale chi ha successo, chi è protagonista, chi è capace di performance eccellenti.

E’ una gara a chi sa di più, un confronto spietato dove se non ti classifichi nelle prime posizioni, quella dei migliori, ti senti inadeguato, incapace, minore rispetto all’altro, ed è proprio questo da evitare.

L’insegnante deve fare in modo che chi ha un talento lo coltivi per poi donarlo a chi ha maggiori difficoltà, solo in questo modo diventa veramente fertile.

Insegnare
Una corretta educazione

Offrire qualcosa all’altro non determina un rallentamento degli eccellenti anzi facilita il rafforzamento delle loro conoscenze perché possono ripetere con parole diverse quello che hanno appreso.

Gli ebrei utilizzano il metodo di ripetere ad alta voce ad un compagno la lezione da imparare, in questo modo memorizzano e solidificano i  saperi.

Una corretta educazione non mira a far:

  • correre il più velocemente possibile,
  • leggere o scrivere in fretta
  • parlare speditamente
  • a dire le tabelline senza respirare,

perché ognuno ha i suoi tempi che vanno rispettati.

L’apprendimento

Ogni studente è un universo a parte, ricco di curiosità, di idee, di interessi, che va ascoltato singolarmente per fargli scoprire le sue infinite possibilità di adattarsi al mondo.

Gli insegnanti sanno che l’apprendimento non è un percorso isolato ma una strada da percorrere insieme, un correre passo dopo passo da singolo si arriva a moltiplicarsi con gli altri.

L’apprendimento è un processo fondamentalmente sociale, una pratica costruita insieme, una co-costruzione.

L’apprendimento è costruttivo quando quello che si apprende viene messo in contatto con l’informazione già conosciuta in modo da poterla riorganizzare in un procedimento migliorativo, questo è più agevole quando si ha la possibilità di condividere le informazioni.

L’educazione alla pari non è altro che questo:

imparare dall’interazione

Un compagno che ha capito già qualcosa e sta più avanti nel percorso diventa il tutor di chi sta un po’ più indietro, l’obiettivo è colmare il vuoto tra i due in modo che i ruoli nel tempo possano invertirsi.

Imparo ad imparare

Questo  è molto importante nell’attività motoria, dove spesso dietro un rifiuto a praticarla c’è un’ansia, una frustrazione, una difficoltà a mostrarsi che quando viene superata libera anche la mente.

E’ questo il vero significato dell’imparare ad imparare.

Io imparo ad imparare quando imparo a colmare le distanze tra me e:

  • il compagno più bravo,
  • la disciplina,
  • la conoscenza,
  • l’insegnante,
  • il mio disagio.

Non è mai una lotta contro qualcuno ma è un processo di riempimento.

Sono vuoto di qualcosa, e questa mancanza non mi permette di arrivare alla pienezza, al compimento per cui sento il bisogno di apprendere.

Dal compagno che ha la mia stessa età, è alla pari con me, imparo più in fretta perché lui mi fa capire il senso di quello che sto apprendendo perché lui ha scoperto un significato nel trovare la soluzione ad un problema.

Quel significato, quella risposta di senso, mi facilita il cammino aiutandomi a trovare la risposta senza nessuna pretesa di fare il mio insegnante ma con l’atteggiamento dell’esploratore che ha la gioia di condividere la sua scoperta.

La positività

Non serve scoraggiarsi alle prime difficoltà, far rotolare il morale raso terra, è  normale non capire subito qualcosa, o non riuscire a svolgere un gesto motorio, e soprattutto “nidda nasciu imparatu” come  recita un simpatico proverbio sardo, “nessuno è nato conoscendo le cose”.

Tutto dipende da come la mente percepisce il mondo, non è utile sentirlo ostile.

Chi pensa che un problema, un compito, un esercizio siano insormontabili, che ormai è tutto inutile, non vale la pena impegnarsi, meglio copiare.

Diventa un complice della:

  • negatività
  • critica
  • lamentela
  • falsità
  • passività

e finisce con il dipendere sempre da qualcuno:

non è mai completamente libero. 

L’atteggiamento vincente è quello di riuscire ad essere positivi, di mantenersi calmi e sereni, di affrontare la difficoltà nello studio riponendo la propria fiducia nell’altro.

Ci si farà aiutare con lo scopo, però, di diventare al più presto autonomo.

Bisogna avere una meta, e se questa viene da noi, è una buona meta, una meta del bene.

Insegnare ad imparare

Il compito dell’insegnante è esclusivamente quello di insegnare ad imparare.

L’educazione tra pari è una metodologia che pone gli studenti al centro del sistema educativo.

In particolare l’attenzione è posta sul gruppo dei pari, che costituisce una sorta di laboratorio sociale in cui sviluppare dinamiche, sperimentare attività, progettare, condividere, migliorando l’autostima e le abilità relazionali e comunicative.

Nello specifico

Si fonda su un approccio cooperativo dell’apprendimento in quanto si propone agli studenti di utilizzare le competenze acquisite per insegnarle ai propri compagni.

E’ basato sul lavoro in coppie o piccoli gruppi di pari dove uno è più esperto e assume il ruolo di tutor, di tutore: l’altro, meno esperto, è colui che deve apprendere, il tutee, il tutelato.

Il tutoring pone l’obiettivo educativo primario di imparare a studiare con gli altri.

Il ruolo dell’insegnante è di regia, in quanto attiva, organizza ed orienta verso il compito le potenziali risorse di apprendimento dei singoli alunni.

L’adulto o il coetaneo più esperto “offre” il suo modello di problem solving, non il contenuto, quindi, non il piatto servito e direttamente da imboccare ma le posate per poterlo mangiare.

Così c’è sempre una stampella a cui appoggiarsi per chi ne ha bisogno, un cucchiaio che ti viene offerto per la minestra riscaldata (scaffolding).

Imparare ad imparare è la competenza che preferisco.

Imparare dal latino significa acquistare.

E’ una parola composta da un in illativo e da parare (procurare) e quindi rimanda al catturare, acquistare una conoscenza.

Imparando prendo con me, un qualcosa che diventerà una risorsa che può consistere in un sapere, un’abilità o un comportamento, un qualcosa che è concreta e che farò mia, e allora diventerà veramente una mia preda, presa unicamente per me, ap-presa.

Questa preda ha però una particolarità, una volta catturata non vuole restare immobile nel mio carniere ma ha le ali della condivisione.

Ogni conoscenza acquisita spinge al volo, all’apertura, imparare diventa in questo modo un esercizio di mettere le proprie cose alla pari con l’altro che condivide con me compiti e finalità.

C’è sempre il pari nell’imparare, solo così il sapere sarà veramente fecondo.

L’uno diventa risorsa per l’altro.

Conclusione

Imparare è quindi anche un imparare a riconoscere se stesso e chi è diverso da se, accogliere i diversi stili di apprendimento.

Conoscenza e riconoscimento sono strettamente collegati e permettono alle persone finalmente di esistere, quel compagno che hai aiutato o dal quale sei stato aiutato ora c’è per te e ci sarà per sempre.

Questa naturale propensione al sapere condiviso, diviso con l’altro, è la prima tra tutte le pratiche didattiche che deve essere messa in opera e rafforzata nella nostra scuola.

Il grado di riconoscimento di ogni componente del gruppo, con le sue:

  • caratteristiche peculiari e speciali,
  • l’accettazione e la valorizzazione delle uguaglianze e delle differenze tra i compagni di classe,
  • il rispetto di ciascuno come persona,

permette di tenere uniti i diversi punti di vista e contribuisce all’apprendimento di tutti.

cooperazione
Foto di Yan Krukov

L’insegnante è bravo non solo se è abile e competente ma quando riesce a creare l’atmosfera giusta in classe

un clima cooperativo dove ognuno è risorsa per l’altro

questo è l’unico modo per realizzare un ambiente veramente inclusivo.

di Pasquale Iezza

Leader-guida

L’allenatore: leader, guida o capo di un team?

In tutti i gruppi, sportivi o non, lavorativi o semplicemente con una finalita’ comune, anche “ solo” ricreativa, si manifestano delle dinamiche che portano alla comparsa e alla strutturazione di ruoli all’interno di essi.

Nel corso di questo articolo ci concentreremo su cio’ che avviene in un…

gruppo squadra di pallacanestro, gruppo di professionisti con formazione, eta’, cultura ed esperienza diverse tra loro, in alcuni casi molto lontane.

Questi individui hanno la possibilita’ di realizzarsi in un gruppo solo se hanno un unico obiettivo comune:

il raggiungimento del miglior risultato sportivo di squadra possibile.

Il gruppo

Piu’ il gruppo e’ in grado di avere delle proprie qualita’, una propria “anima”, piu’ i risultati potranno essere superiori alla mera somma delle caratteristiche tecniche ed umane dei singoli membri.

Nella costruzione della squadra, in quello che probabilmente e’ il periodo dell’anno in cui devono essere fatti meno errori possibili (clicca qui) e’ necessario, direi imprescindibile, non sbagliare la scelta degli uomini in base alle loro capacita’ di fare gruppo.

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E’ importante scegliere persone, ancora prima che giocatori, in grado di convivere in un gruppo con precise regole, porre il bene comune davanti al proprio, ma anche individuare quelli che possono ricoprire determinati ruoli all’interno di esso.

Alcuni ruoli saranno:

a determinarli e definirli, ma la mia esperienza mi porta ad affermare senza ombra di dubbio che non si puo’ prescindere dalla presenza di un leader.

Il gruppo ne ha bisogno, ne sente la presenza e l’importanza!

Come individuare un leader

A questo punto credo sia opportuno sottolineare come non sempre il leader è il giocatore piu’ bravo tecnicamente o il piu’ performante o quello che eccelle in qualche categoria statistica.

Non dobbiamo infatti confondere il leader tecnico da quello “morale”.

Il leader tecnico

Lo s’identifica con:

  • il tempo,
  • attraverso le situazioni di gioco,
  • quello a cui dare la palla nei momenti decisivi
  • a cui affidare l’ultimo tiro,
  • quello da mandare in lunetta per i tiri liberi piu’ importanti
  • il giocatore a cui assegnare l’avversario piu’ pericoloso.

E possono essere anche piu’ di uno.

Spesso si prova ad immaginarli nella costruzione della squadra, ma e’ soprattutto l’esperienza delle partite che ci permette di identificarli.

Sono importanti?

Certo!!

Ma questi sono presenti in tutte le squadre, a tutti i livelli, infatti, c’e’ qualche giocatore che emerge per caratteristiche rispetto agli altri, quelli a cui affidare il ruolo piu’ importante e decisivo.

Il leader morale

E’ il secondo tipo di leader, quello che ho definito “morale”.

Quello che:

  • trascina il gruppo nel lavoro quotidiano,
  • che e’ un esempio per il raggiungimento degli obiettivi di squadra,
  • è in grado di tenere tutti “sulla stessa pagina del libro” nei momenti difficili
    • che non sempre lo si trova nelle squadre.

Non necessariamente emerge nelle statistiche personali, spesso lo fa, ma in alcuni casi non e’ nemmeno tra quelli che giocano di piu’:

  • Aiuta i compagni piu’ in difficolta’,
    • magari riportando le proprie esperienze personali,
  • aiuta i giocatori ad inserirsi in un ambiente nuovo,
  • è colui che all’interno dello spogliatoio favorisce aggregazione
  • sa far rispettare le regole che devono valere per tutti!

Lo si capisce e lo si avverte anche sul campo, grazie al suo linguaggio del corpo, una pacca sulla spalla, un cinque, un incoraggiamento, ma anche alzando la voce quando è necessario.

Durante la settimana la sua presenza ha un peso specifico ancora maggiore.

leader morale
foto da cam.tv

Quando l’obiettivo è lontano (la partita) e’ fondamentale avere chi ci “ricorda” con:

  • l’esempio,
  • la concentrazione,
  • l’abnegazione

che solo il lavorare al 100% ti permette di arrivare pronto all’evento.

Alcune di queste caratteristiche le ritroviamo nella figura dell’allenatore.

In diversi casi si sente dire che il leader del gruppo e’ proprio il coach, che con la sua personalita’, le sue idee e la sua mentalita’ riesce a guidare il gruppo verso gli obiettivi prefissati.

Quanto c’e’ di vero in queste affermazioni?

Proviamo a dare una risposta.

Non c’e’ nessun dubbio che un gruppo di giocatori che non segue il proprio allenatore e’ destinato a fallire.

Un allenatore che non riesce a trasmettere le proprie idee tecniche e tattiche avra’ una capacita’ di intervenire sui propri giocatori pressoche’ nulla e sarà veramente difficile costruire un gruppo.

Molto probabilmente assisteremo in questo caso ad un insieme di singoli giocatori piuttosto che ad una vera e propria squadra.

Ancor di piu’ ritengo importante la capacita’ del coach di inculcare la propria mentalita’ alla squadra.

Il buon allenatore lo si vede esattamente in questa circostanza.

Indipendentemente dalla qualita’ del gioco, dalle scelte tattiche o se siamo in presenza di un allenatore da palestra o piu’ gestore del gruppo.

Le squadre dei vari:

ma anche di

le riconosci, indipendentemente dai giocatori che hanno, e le si riconoscono dalla identificazione dei giocatori con la mentalita’ dell’allenatore.

Messina - Scariolo
Messina Ettore , Scariolo Sergio
Foto A.Gilardi / Ciamillo-Castoria

Quindi puo’ essere l’allenatore il leader del gruppo?

La mia personale risposta e’ no!

Ritengo che la nostra categoria debba essere in grado di indicare gli obiettivi da raggiungere e stabilire la strada per farlo, di decidere le regole a cui il gruppo deve attenersi e magari prevedere delle eccezioni e spiegarne i motivi.

Deve operare delle scelte, anche impopolari, tenendo sempre a mente l’obiettivo finale, salvaguardare l’esigenze comuni rispetto a quelle dei singoli, ma in posizione piu’ di capo che di leader del gruppo.

Coach Andrea Trinchieri
Andrea Trinchieri da: dunkest.com

Deve, infatti, in tante occasioni uscire da esso ed operare come se non ne facesse parte.

Non ha gli stessi diritti dei giocatori, ed ha responsabilita’ diverse da essi, deve prendere decisioni (vi rimando all’articolo riguardo il lavoro di staff – clicca qui) e deve avere l’ultima parola in caso di divergenze di idee.

Conclusione

Non puo’ esserne il leader, ma deve essere capace di rappresentare una guida, in poche parole deve esserne il capo.

La combinazione perfetta e’ la presenza di un capo autorevole e di almeno un leader positivo dalla spiccata personalita’.

Se pensiamo alle grandi squadre e al raggiungimento di grandi obiettivi,

non possiamo prescindere dall’individuazione di queste due figure!!

di Sergio Luise