È riuscito e riesce a farmi riflettere su tutto ciò che scorre intorno a noi. Il suo modo di parlare, la sua padronanza di linguaggio, la chiarezza, il contenuto dei suoi pensieri sono un toccasana.
Estrapolo, dal suo blog, un piccolo stralcio della sua descrizione:
“Un curioso prima di tutto. Ma anche uno un po’ pigro. Uno, cioè, che non fa nulla senza qualcosa in cambio. E quel che voglio in cambio di quel che faccio è: divertimento. Che sembra infantile, e infatti lo è. Ma non mi muovo dalla sedia se non mi diverto, qualunque cosa faccia. Poi viene tutto il resto. Ed è un limite, spesso.
Anni e anni fa, dopo aver fatto il liceo classico, mi sono laureato in scienze politiche (dovessi riscrivermi oggi, la risceglierei, non perché serva a qualcosa ma perché resta ancora una delle facoltà che mi piace di più), e poi da lì ho iniziato a girovagare nel mondo del lavoro, in un tour che spero non finisca mai. Ci sono così tante cose belle da fare e da scoprire che spero di scoprirne ancora altre.
Infatti ho fatto di tutto, dall’imprenditore all’allenatore, dallo scrittore al divulgatore, e di alcune di queste cose ancora me ne sto occupando……”
La collaborazione è iniziata più di dieci anni fa, lui come capo allenatore ed io preparatore fisico vincendo, alla fine, il campionato. Le nostre strade, da allora, non si sono più separate. Ho sempre cercato di coinvolgerlo sia in scelte lavorative sia in progetti scolastici dove ero sicuro potesse contribuire positivamente al binomio docenti – alunni e ho voluto fortemente il suo supporto in questo progetto che sto tentando di mettere in atto. Di seguito un video, inserito nel suo blog, tanto significativo e profondo da volerlo riproporre qui.
Grazie caro Dino per aver accettato di collaborare!
Dino, “potentino doc”! È riuscito e riesce a farmi riflettere su tutto ciò che scorre intorno a noi. Il suo modo di parlare, la sua padronanza di linguaggio, la chiarezza, il contenuto dei suoi pensieri sono un toccasana.
Estrapolo, dal suo blog, un piccolo stralcio della sua descrizione:
“Un curioso prima di tutto. Ma anche uno un po’ pigro. Uno, cioè, che non fa nulla senza qualcosa in cambio. E quel che voglio in cambio di quel che faccio è: divertimento. Che sembra infantile, e infatti lo è. Ma non mi muovo dalla sedia se non mi diverto, qualunque cosa faccia. Poi viene tutto il resto. Ed è un limite, spesso. Anni e anni fa, dopo aver fatto il liceo classico, mi sono laureato in scienze politiche (dovessi riscrivermi oggi, la risceglierei, non perché serva a qualcosa ma perché resta ancora una delle facoltà che mi piace di più), e poi da lì ho iniziato a girovagare nel mondo del lavoro, in un tour che spero non finisca mai. Ci sono così tante cose belle da fare e da scoprire che spero di scoprirne ancora altre. Infatti ho fatto di tutto, dall’imprenditore all’allenatore, dallo scrittore al divulgatore, e di alcune di queste cose ancora me ne sto occupando……”
La collaborazione è iniziata più di dieci anni fa, lui come capo allenatore ed io preparatore fisico vincendo, alla fine, il campionato. Le nostre strade, da allora, non si sono più separate. Ho sempre cercato di coinvolgerlo sia in scelte lavorative sia in progetti scolastici dove ero sicuro potesse contribuire positivamente al binomio docenti – alunni e ho voluto fortemente il suo supporto in questo progetto che sto tentando di mettere in atto. Di seguito un video, inserito nel suo blog, tanto significativo e profondo da volerlo riproporre qui.
Grazie caro Dino per aver accettato di collaborare!
Il gesto di togliersi quella medaglia dal collo come fosse una macchia da cancellare.
Da calciatori che militano nei maggiori club europei e che difendono i colori di una gloriosa nazione, non è stato bello da vedersi.
Che il pubblico…
…fischi sull’inno nazionale è certamente deprecabile, ma lo è ancora di più il gesto di un addetto ai lavori che non è un Carneade che paga il biglietto e fa quel che vuole.
Non posso credere ad un ordine di scuderia.
Nessuno arriva a pianificare una simile bassezza.
E allora c’è un solo modo per spiegarlo:
Non voglio andare a rivedere chi sia stato il fenomeno, e nemmeno mi interessa, ma ha sbagliato alla grande.
Peggio ancora hanno fatto i pappagalli che gli sono succeduti.
Un errore enorme per molte ragioni:
Per aver ripudiato un risultato di grande prestigio.
Ripudiare quella medaglia vuol dire non cogliere l’onore e il rispetto che conferisce l’essere arrivati così in alto.
Per il messaggio che comporta per tutti i giovani giocatori che lo hanno guardato.
Un messaggio fortemente diseducativo che rende lo sport accettabile solo in un caso.
Se perdi puoi mandare tutto a carte 48, al diavolo il Fair play, al diavolo l’onore delle armi, al diavolo questa competizione e soprattutto al diavolo chi ha vinto.
A che serve che Southgate vada a dare la mano a Mancini a fine gara?
A che serve applaudire e ringraziare i tifosi dopo la sconfitta?
A che servono anni e anni di disciplina, di etica e di riconoscimento del valore di una sconfitta quale spinta da cui ripartire se poi in un minuto vanifichi tutto?
In ultima analisi vuol dire anche un’altra cosa che per un giocatore è forse la più importante:
rifiutare il fatto che hai commesso una quantità di errori e, attraverso quel rifiuto di indossare una onorevolissima medaglia, credere che quella coppa ti è stata trafugata ingiustamente.
Al di là della cifra tecnica, per me va rispettata una regola che riguarda tutte le dinamiche di gruppo, in particolar modo per quei gruppi che sono formati per il raggiungimento di obiettivi (orchestre, militari, squadre) e questa regola, piaccia o meno, ha a che fare con il concetto di gerarchia.
Milano è un’orchestra di splendidi esecutori ma con un unico difetto:
Un piccolo difetto che sul campo diventa macroscopico specie quando deve compattarsi nelle fasi decisive della battaglia quando ogni piccola decisione può portare a vincere o perdere.
E questo non lo puoi cambiare o modificare in due giorni.
O lo hai individuato ex ante oppure continuerai ad affidarti alla vena dei singoli.
Se a questo aggiungi il fatto di giocare la prima partita in casa, la bilancia avrebbe dovuto pesare tantissimo per la Virtus ed essere molto più leggera dall’altra parte.
Ma gli occhi vitrei di Messina e Datome hanno reso chiaro il fatto che Milano abbia una certa difficoltà a gestire il clima psicologico.
Lo si capisce davanti alle reazioni sui primi errori della squadra.
Non è così che si affronta sul piano mentale una partita.
La parola d’ordine dovrebbe essere: tolleranza; la seconda: positività.
Secondo aspetto (collegato al primo): sicurezza.
Milano (opportunamente) sceglie di cambiare le carte e giocare con un centro puro per alzare l’energia e l’intimidazione di Bologna.
Scelta che produce più solidità, rimbalzi, secondi tiri.
Ma dopo pochi minuti il centro non si vede più in campo.
Chi siamo? Quelli più atletici e dinamici di sempre o quelli più muscolari di stasera?
L’identità della squadra va in vacanza.
Terzo aspetto
Quegli altri difendono ogni palla come se non ci fosse un domani. Risultato: una corazzata come Armani lasciata a 58.
Saranno pure stanchi, ma mi sembra che ci sia anche qualcos’altro.
Quarto aspetto
Qualcuno saprebbe spiegarmi che giocatore è Micov? No, perché io non riesco a definirlo.
Non di poco conto è il fatto che, tranne rarissimi istanti, in tutte e tre le partite, i bolognesi sono per larghi tratti (circa 38 minuti su 40), davanti nel punteggio.
Non voglio parlare di supremazia, ma siamo vicini.
Milano 0 – Bologna 3
Gara 4
La riconoscenza
Il primo pensiero va alla dirigenza di Bologna.
Come si sentiranno dopo aver esonerato e poi aver dovuto ingoiare il richiamo dell’allenatore che poi li ha portati allo scudetto? Un minimo di vergogna sarebbe il minimo, oltre alle scuse.
Il secondo va a un ragazzo di 21 anni che accanto a giganti che hanno vinto titoli europei e mondiali non solo non sfigura ma è quello che dà la carica, difende per tre, non perde una palla e fa canestri decisivi.
Il terzo è per un veterano che in NBA ha fatto i numeri, torna in Italia, accetta la sfida di una società che non vinceva lo scudetto da 16 anni, e nonostante cerchino di asfissiarlo, continua a segnare in ogni modo: da fuori, da sotto, su due piedi e pure palleggiando su un piede solo.
No, sul direttore d’orchestra non dico nulla. Tranne il fatto che continuare a incantare e fare assist come manna dal cielo e punti decisivi non è affatto scontato.
Infine la difesa. Qui basta vedere i parziali dei quarti per capire anche la gara 4 che tipo di trend abbia avuto: 19-24, 22-19, 14-8, 18-11, e capire che Virtus ha progressivamente spento gli avversari come una candela.
E allora se sei un giovane allenatore, chiudi i libri, smetti di andare ai corsi, tagliati la partita e guarda una decina di volte al giorno soltanto le azioni difensive della Virtus. Ne uscirai un allenatore migliore.
In questo blog abbiamo sempre ospitato con estremo piacere ed interesse interventi di addetti ai lavori in campo sportivo che hanno dato sempre, ciascuno con la propria specializzazione, un contributo importante ed esclusivo per accrescere la cultura dei tanti amici che seguono questa testata.
Proprio sull’argomento “cultura”, intendiamo però aprire anche a contributi diversi da quello intrinsecamente di natura sportiva.
Crediamo infatti che…
…l’accrescimento della consapevolezza prescinda dalla singola materia e costituisca una crescita personale che riguarda anche altri campi, diversi e complementari a quello sportivo.
Abbiamo già in passato tentato un esperimento del genere.
Qualche mese fa abbiamo mandato, con eccellenti risultati in termini di ascolti, le puntate di un progetto che riguardava il tema dei diritti umani, che aveva nello sport un punto in comune con lo spirito di questo blog.
Dello stesso autore di quel lavoro, Dino De Angelis, già allenatore di pallacanestro, vorremmo adesso ritentare l’impresa.
Questa volta l’argomento in questione c’entra ancor meno con la mission di progetto, ma crediamo che valga la pena anche stavolta di ospitare il tema che l’autore ci propone.
In questo caso si parlerà di uno dei casi più discussi sul mondo della musica italiana:
Immetteremo anche stavolta delle puntate consecutive che ci parleranno della biografia di questo cantautore scomodo.
Ricordando a noi stessi che
a volte forse proprio nella difformità dalla massa, nella ricercatezza e in un nuovo approccio al proprio mondo professionale,
si può trovare un modo per resistere alla dilagante omologazione di cui la nostra società era vittima prima, oggi ancor di più.
Pensiamo che sia un messaggio che si possa adattare benissimo anche a noi che ci occupiamo di attività sportiva.
Costa certamente maggiore fatica andare a cercare situazioni poco comuni e altrettanto poco omologate, ma crediamo che la sperimentazione costituisca sempre un valore aggiunto anche rispetto ai nostri percorsi.
L’esempio di Luigi Tenco ce lo dimostra in maniera inequivocabile.
Uno dei più classici oggetti che fanno parte della vita di un allenatore e che lo accompagna non solo la domenica, è il taccuino.
Sul taccuino l’allenatore ci scrive DI TUTTO.
Non si può fidare della sua sola memoria, e allora il taccuino serve a raccogliere ogni tipo di informazione che gli servirà a definire meglio il suo lavoro quotidiano e i suoi obiettivi.
Su quei taccuini si sono…
…vinte più partite di molte faticose sedute di allenamento e in quelle pagine non ci sono soltanto schemi ed esercizi.
Ci sono anche frasi e annotazioni che aiutano il coach a focalizzare meglio i suoi obiettivi.
Gli sbagli
Nei lunghi decenni in cui ho avuto la fortuna di allenare, trascrivevo ogni anno alla prima pagina di ogni nuovo taccuino la seguente frase, mutuata da un sillogismo aristotelico:
Questo monito serviva a ricordarmi, ogni giorno della mia carriera, che un allenatore è, prima di tutto, quello che sbaglierà più di tutti.
La ragione di questo è molto semplice.
Il basket è lo sport in cui per eccellenza un allenatore opera delle scelte continuativamente:
mentre qui possiamo, sì e no, limitarci a dare dei piccoli input, soggettivi e limitati alla sola esperienza di chi scrive.
Le gerarchie
La dinamica insita nelle scelte di chi far giocare prima, chi dopo, e chi solo se scende la Madonna, la definizione di chi giocherà i minuti decisivi, sono decisioni connesse ad un altro sacramento non scritto che vige nello sport in generale e in particolare nel basket:
la presenza di gerarchie indispensabili.
Ogni squadra ha la sua intrinseca chimica dei fattori interni, nella quale si può intravedere chiaramente un mix tra giocatori di esperienza, giocatori di media affidabilità, la presenza di una o più star, e giovani.
Questo mix definisce le dinamiche di una squadra e la àncora ad un principio gerarchico che è necessario conoscere, definire e condividere.
Qui pure si aprirebbe un capitolo che si trova a metà strada tra la chimica e le dinamiche di gruppo.
La chiarezza
È altamente raccomandabile che l’allenatore chiarisca preliminarmente alla squadra il criterio gerarchico da lui individuato per risolvere immediatamente la prima e più importante minaccia a cui il gruppo è sottoposto:
Ciascun giocatore deve sapere esattamente il suo peso all’interno della squadra: “l’accettazione di quel ruolo (non in senso tecnico ma come rilevanza) definirà il grado di compattezza di tutto l’assieme”.
Se sono un giocatore importante devo sapere che la squadra, l’allenatore e i compagni, si aspettano da me:
che giochi un certo minutaggio
che mi assuma determinate responsabilità
che porti sulle mie spalle un certo peso sul buon andamento della partita
e che sia pronto a farmi pienamente carico di tutto questo.
Se sono un giocatore giovane, arrivato per fare esperienza, devo sapere:
di non aspettarmi grandi minutaggi
che dovrò faticare per conquistare la fiducia di tutti
che devo aiutare gli altri ad allenarsi bene
tutto quello che verrà di più sarà guadagnato.
Il motivo della gerarchia
Dentro queste gerarchie si suddividono proporzionalmente anche le percentuali di merito/demerito che vanno redistribuite di pari passo con i successi o gli insuccessi della squadra.
La pallacanestro da questo punto di vista raramente ha commesso errori nell’attribuzione esatta delle responsabilità, nel fermo convincimento che è poi tutta la squadra a far fronte comune davanti ai successi o agli insuccessi.
La definizione delle gerarchie aiuta l’allenatore anche a compiere le scelte migliori nei famosi frangenti decisivi delle partite.
Se devo scegliere a chi affidare la conclusione che mi farà andare in paradiso o all’inferno, credo sia difficile che quella conclusione possa metterla nelle mani di un giovane con poca esperienza:
Questo è quello che capita nella stragrande maggioranza delle squadre.
L’eccezione che conferma la regola
Poi un giorno, un allenatore di Caserta che allena la squadra della sua città, arriva a giocarsi una finale scudetto in trasferta a Milano, e sul time out della quinta e decisiva partita, a meno di due minuti dal termine della gara che avrebbe assegnato l’unico scudetto della storia ad una squadra del Sud, si avvicina non al giocatore esperto, ma ad un ragazzo poco più che ventenne e gli chiede:
Attraverso le parole di Alberto Cantone comprendiamo il gesto di un piccolo grande uomo che a suo modo ha cambiato la storia dei diritti umani. Il suo nome è Peter Norman e il suo gesto silenzioso sarà ricordato a lungo.
Hanno rischiato di saltare quelle Olimpiadi, e sarebbe stato un peccato mortale, perché hanno toccato livelli assoluti, anche dal punto di vista sportivo.
Ah, finalmente ascoltiamo, oltre la musica, anche le parole della canzone di Alberto Cantone, dedicata a Peter Norman, colonna sonora di questo lavoro.
I leader della battaglia in favore dei diritti umani sapevano usare parole forti e incisive.
Alcune di quelle parole finirono poi dentro le canzoni a loro dedicate.
come si evince dall’immagine di copertina tutta la storia porterà a spiegare i collegamenti tra i diritti umani e una finale olimpica di atletica leggera
Non so se avete fatto il biglietto, perché per questo primo blocco di puntate dovremo fare dei viaggi in pullman.
Si parte da Montgomery, in Alabama, in compagnia di una simpatica sarta di colore, per poi fare un tour nel sud degli States, a bordo di pullman che portavano in giro aria di libertà.
Ma si sa, la libertà ha un prezzo alto da pagare: oggi di questa cosa forse ce ne dovremmo ricordare più spesso.
Ma pronti a prendere posto, Rosa ci attende. Lei, il suo posto, lo ha già preso.
Basta essere stati buoni giocatori per essere anche grandi allenatori?
Prescindiamo per una volta dai singoli sport, ma restringiamo però il campo almeno agli sport di squadra, che esigono dinamiche e competenze relazionali assolutamente diverse da quelli di tipo individuale.
Il caso del giorno, è evidente, riguarda Pirlo, neo allenatore della Juve.
La nomina ha fatto scattare, inevitabilmente, parecchie osservazioni sull’opportunità di nominare un allenatore che non ha mai allenato.
Provo a riassumere le principali osservazioni, assumendomi ogni rischio di tralasciare pareri importanti, ma solo a mo’ di sollecitare un approfondimento successivo che non ha alcuna pretesa di essere assoluto.
Tra le tante cose che lo sport insegna c’è il postulato che la sua dinamica è talmente complessa e mutevole da rendere impossibile una previsione che possa avere il requisito minimo dell’attendibilità.
La riflessione
Dunque, esattamente come hanno fatto i virologi parlando di un virus ancora sconosciuto, mi rendo perfettamente conto di addentrarmi in un terreno solo parzialmente conosciuto, per aver ricoperto un ruolo di allenatore per poco più di tre decenni (praticamente nulla), e di rischiare di intravedere dietro l’orizzonte un panorama dal pronostico complesso.
Secondo la mia concezione (ecco, con questa premessa rendo ogni argomentazione soggettiva, e quindi priva della presunzione dell’assolutezza), un allenatore è una somma perfetta ma non compiuta di una serie di competenze, delle quali l’ottima conoscenza del gioco ne costituisce solo una parte.
Veniamo al caso. Pareri discordanti, dicevamo.
Partiamo dai pareri favorevoli.
Primo aspetto: Pirlo è stato eccellente giocatore
Dai piedi ottimi e dalla presenza sempre percepita favorevolmente dal gruppo dei giocatori e delle squadre per le quali ha militato. Requisito a mio avviso che dice molto di più del suo talento.
Essere visto come parte integrante di squadre differenti testimonia una duttilità caratteriale, una personalità ed una identità non solo tecnica che non può che costituire un ottimo viatico per la carriera che si appresta a fare.
Secondo aspetto: conoscenza del gioco
Chi ha giocato molti anni a certi livelli il gioco lo conosce benissimo, ma se hai giocato nel ruolo di playmaker lo conosci senz’altro di più.
Non perché un difensore o una punta abbiano meno capacità di comprensione del gioco, ma indubbiamente se il gioco lo hai creato tu, e lo hai fatto benissimo e per molto tempo, penso che le tue capacità di compenetrarti in una dimensione che esula la tua individualità di giocatore costituisca un asset importantissimo per vedere le cose come coach.
Terzo aspetto favorevole: Pirlo, a detta di Ulivieri (uno dei responsabili dei corsi di Coverciano) è stato un allievo modello
Ha mostrato di conoscere il calcio a menadito (e questo lo avevamo supposto pure se non avesse frequentato il corso).
Non mi dilungherò su quanto un corso sia in grado di apportare significative competenze ad un allenatore specie per allenare a certi livelli, ma dirò subito che, sempre a mio sommesso avviso, da quel punto di vista la percentuale fa fatica ad arrivare alla doppia cifra.
Tra i pareri favorevoli si cita, in questi giorni, il paragone con esempi illustri che hanno fatto strabene nel passato, pur non avendo alcuna o poca esperienza come allenatore.
In casi simili si sono tirati in ballo mostri del calibro di Guardiola e Zidane. Paragoni difficili? Forse. Ma nella dinamica delle cose mi paiono azzeccati nel metodo, meno nel merito. Entriamo allora nel merito.
Cose negative:
Se esaminiamo i due big citati, non vorrei scomodare termini come carisma, personalità e via cantando, perché significherebbe porre il povero Andrea in una condizione di subalternità, e non me la sento per palese disconoscenza del suo livello nei temi suddetti.
Parlo solo di un’ultima cosa che a me pare evidente.
Un allenatore che si definisca efficace deve avere una certa capacità di persuasione, la qual cosa non equivale a manipolare, ma semmai a convincere i suoi giocatori ad abbandonare le proprie sacrosante individualità (la maggior parte dei giocatori nutre un egoismo che va spesso a discapito della complessità del gruppo).
Capacità di persuasione equivale in molti casi ad avere qualità comunicative e di estroversione che, devo essere onesto, in Pirlo ho notato assai poco.
Ovvio che il mio parere si fonda su quel che si vede (interviste, partecipazione a trasmissioni tv, ecc.) quindi mi rendo conto che, anche qui stiamo parlando di impressioni, ma non mi pare che il nuovo allenatore della squadra che è continuamente alla ricerca del tutto e subito, abbia mostrato scioltezza o approfondimento di argomenti e quindi concluso nel modo seguente.
Conclusione
Se Andrea dai piedi d’oro saprà unire alle indubbie conoscenze tecniche e tattiche da lui possedute, anche un netto miglioramento delle sue abilità di conoscenza dei complessi fattori umani che vanno sotto il nome di “dinamiche di gruppo”.
Saprà definire anche attraverso un netto incremento della sua capacità di comunicazione e di persuasione, un vocabolario che gli permetterà di gestire tanto la stella come l’ultimo ragazzo che viene dalle giovanili e coinvolgere tutti in una entusiastica partecipazione anche emotiva alle sorti del club che gli è stato affidato, beh, allora avremo probabilmente l’allenatore ideale.
Ed è, alla fine, quello che si augurano i tifosi della Juventus ed anche tutti quelli che sperano che un bravo e stimato giocatore senza alcun passato da allenatore possa diventare il coach del domani.
Tanto come sempre, il campo rivelerà la verità. In bocca al lupo!
La cosa curiosa dei tabelloni segnapunti (e segnatempo) è che se potessero registrare gli sguardi, diventerebbero incandescenti a mano a mano che la partita volge verso la fine.
Se fossi un esperto in matematica direi che il tabellone lo si guarda in maniera inversamente proporzionale allo scorrere del tempo.
il primo per l’evento agonistico in sé che si svolge sul campo,
il secondo per il tabellone,
il terzo per il tavolo dei giudici (a cui ci si interfaccia per le operazioni amministrative della partita).
Ebbene sì, anche una partita ha le sue pratiche burocratiche da espletare.
Il tabellone
Eppure quel tabellone che fa sospirare e penare, dannare e gioire, quei piccoli cristalli rossi che si illuminano formando sostanzialmente numeri, tutta quella roba lì è un grande ingannatore.
Non perché sia bugiardo in sé (non c’è cosa più veritiera dei numeri, com’è noto), ma perché quel tabellone,
Il risultato finale
Sto parlando del risultato finale.
Quale unico ed assoluto giudice di ogni valutazione ex post di una prestazione?
E sto anche cercando (e sarà impresa non poco faticosa) di dimostrare che quel tabellone deve iniziare ad avere un’importanza relativa e non già assoluta nelle valutazioni di uno staff tecnico e di una società circa la performance della squadra.
Va bene, lo ammetto che la questione è spinosa assai e che investe direttamente la vecchia dicotomia tra fare sport per il gusto di farlo e farlo esclusivamente per vincere.
E’ esattamente il metro con cui si valuta lo sport semiprofessionistico e professionistico.
È questione spinosa anche perché deve ribaltare uno degli assiomi più antichi dello sport e cioè che quest’ultimo è vero solo in funzione dei risultati e che nulla conta al di fuori di quelli, che chiunque viene valutato per quanto ha vinto, eccetera eccetera.
Che se mi permettete, questa è solo una delle variabili in gioco (importante certo, ma ce ne sono anche delle altre).
Quante volte:
ci siamo sentiti dire che la nostra squadra meritava di vincere?
il pubblico ci ha applauditi anche dopo una sconfitta?
gli allenatori avversari si sono sinceramente complimentati per la prestazione fatta anche quando siamo usciti dal campo con le pive nel sacco?
La formalità
Orbene, il mio tentativo da queste colonne sarà tutto teso a dimostrare che tutta quella roba lì, che è accaduta a tutti, certamente anche più di qualche volta, è tutt’altro che formale e che la vittoria non è assolutamente l’unico parametro di valutazione per arrivare a definire se la nostra programmazione, la nostra conduzione di una gara e – purtroppo – non l’epilogo della stessa non sono da buttar via soltanto perché alla fine il punteggio ci vede sconfitti.
Ovvio considerare che se abbiamo perso ci manca ancora qualcosa, ma facciamo veramente attenzione ogni volta ad entrare nel merito della prestazione per sottoporla ad una attenta scannerizzazione che riguarda i quaranta minuti di gioco e non, magari, l’ultimo sfortunato episodio.
Proviamo anche a mettere in atto un’altra strategia.
Quel tabellone fatto di led luminosi rossi che cambiano vertiginosamente con il variare del punteggio, dei tempi di gioco e dei falli, proviamo a guardarlo un po’ meno spesso.
Quel tabellone ci condiziona tremendamente, inconsciamente, subliminalmente.
Faccio un esempio.
A inizio terzo quarto siamo avanti di venticinque:
Ritengo che il tabellone sia paradossalmente un nemico più della squadra che è avanti nel punteggio di quella che è in svantaggio.
Quei numeri dicono cose che possono entrare prepotentemente in quella delicata cosa che sono le motivazioni agonistiche che molto spesso spostano gli equilibri con la stessa facilità con cu si ribalta la famosa “inerzia”.
Ovvero quella miscela chimica e psicologica che nessuno ha mai capito fino in fondo ma che tutti gli allenatori conoscono e la “sentono” nell’aria prima che la situazione venga poi di fatto ribaltata sul campo anche se fino a pochi minuti prima il risultato sembrava aver preso una direzione precisa.
Conclusione
E allora, per concludere, qui nessuno vuole scomodare De Coubertin e assecondare quel suo cavalleresco e assai poco attuale aforisma,
in un’epoca nella quale, non solo nello sport, tutti vogliono spudoratamente vincere, sempre e comunque, con ogni mezzo, perfino quelli illeciti.
Tutto si giustifica nella moderna società della competizione sull’altare del “vincere e vinceremo”. (Duce, ci scusi la citazione).
Eppure sento che la vera e profonda ragione per giudicare cosa siamo veramente, cosa abbiamo realizzato veramente in quella partita, cosa serve veramente per trasformare quel granello di sabbia che è mancato nella valanga che occorre per superare la corrente:
Due considerazioni finali
La prima è che nessuno gioca mai a perdere e tutto questo non riguarda affatto l’aspetto delle giustificazioni o degli alibi per una sconfitta
quella sì, che sarebbe una cosa esecrabile.
La seconda è una parziale correzione della storia, ovvero del detto di De Coubertin e del senso che voleva dire.
Quel detto non è affatto farina del suo sacco: lo pronunciò per primo nella storia un filosofo greco che non avrebbe mai detto una cosa così scontata, perché quel filosofo disse in realtà:
“L’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente”.