Ah, finalmente ascoltiamo, oltre la musica, anche le parole della canzone di Alberto Cantone, dedicata a Peter Norman, colonna sonora di questo lavoro.
I leader della battaglia in favore dei diritti umani sapevano usare parole forti e incisive.
Alcune di quelle parole finirono poi dentro le canzoni a loro dedicate.
come si evince dall’immagine di copertina tutta la storia porterà a spiegare i collegamenti tra i diritti umani e una finale olimpica di atletica leggera
Quella domenica in pole position c’era Ayrton Senna, a bordo della nuova macchina, una Williams Renault, ma alle prove di quel Gran Premio erano successi due episodi piuttosto strani.
Il venerdì
Durante le prove libere del venerdì la Jordan di Rubens Barrichello uscì di traiettoria alla Variante Bassa a causa della velocità troppo elevata.
Passò di traverso sul cordolo esterno e decollò, superando le gomme di bordopista e impattando contro le reti di protezione.
L’auto quindi rimbalzò all’indietro, si cappottò un paio di volte e infine si fermò ribaltata nella via di fuga ma il pilota si salvò.
Il sabato invece accadde di peggio.
La vettura guidata dal pilota austriaco Roland Ratzenberger, sul rettilineo all’uscita della curva Tamburello, subì la rottura dell’ala anteriore e divenne praticamente ingovernabile:
la corsa finì contro il muro esterno della successiva curva, intitolata a Gilles Villeneuve.
Nel fortissimo impatto la cella di sopravvivenza dell’abitacolo resse abbastanza bene, ma la decelerazione fu tale da far perdere immediatamente conoscenza al pilota, provocandogli una frattura della base cranica.
Secondo le leggi italiane l’autodromo sarebbe dovuto andare immediatamente sotto sequestro a causa dell’incidente mortale, per consentire al pubblico ministero competente di effettuare i rilievi.
Essendo però i medici riusciti a riattivare il cuore di Ratzenberger, il successivo decesso avvenne al di fuori del circuito e non comportò la sospensione del programma di gara.
Una serie di coincidenze non volute da nessuno che avrebbero decretato una serie di fatalità.
Senna
Così Senna aveva più di un motivo per essere preoccupato per quel gran Premio.
In quel momento aveva 34 anni ed era nel pieno della sua fulminante carriera di pilota di Formula 1.
Ed infine ecco accadere, prima della gara, il terzo episodio molto strano.
Prima di partire per la gara, Senna fece una cosa che non aveva mai fatto:
ma prima di indossare il casco, chiuse gli occhi e si immaginò qualcosa, come se avesse una specie di presentimento.
A noi piace pensare che quello che si immaginò fosse una specie di rivisitazione della sua vita, da quando era partito dal suo paese fino ad arrivare ad essere il pilota più veloce del mondo.
La Pallarmonica è qualcosa che va oltre lo sport e oltre l’intrattenimento fine a sé stesso.
È, più di ogni altra cosa, un messaggio.
Nasce all’interno di una scuola, ed è lì che questo messaggio acquista una valenza ancora più significativa. Perché, è vero,…
…ci sono tutte le componenti di una disciplina sportiva.
Squadra A, Squadra B, una palla e una rete nel mezzo.
È una cosa che abbiamo visto tante volte. Il tennis, la pallavolo, eccetera.
Ma stavolta è diverso.
Nella Pallarmonica viene esaltato, fino a farne una regola,
Non si può tirare la palla al di là della rete se non stando uniti, creando un contatto tra i giocatori in campo.
E si sa, i messaggi hanno spesso più forza delle imposizioni.
E così i giovani giocatori devono entrare in contatto tra di loro se vogliono realizzare il punto.
Non crediamo sia una cosa di poco conto.
In questa epoca di individualismo esasperato in cui ci troviamo, avere la possibilità di far praticare ai ragazzi un gioco che esalti le finalità collettive prima di quelle individuali, pare una piccola rivoluzione.
E le rivoluzioni hanno sempre avuto lo scopo di cambiare quello che c’era prima.
La Pallarmonica, come il nome stesso suggerisce, pratica l’armonia, lo spirito di squadra, a tutto svantaggio della pratica individualista.
L’argomento è dibattuto da tempo senza che vengano individuate con una certa precisione modalità ed effetti.
Spesso si tira in ballo la scuola come organo maestro nell’inculcare i principi dell’educazione, ma…
…non sempre l’istituzione scolastica dà del tu allo sport in quel rapporto virtuoso tra educatori sportivi ed alunni.
Il recupero della cultura sportiva
E allora il problema di recuperare una adeguata “cultura sportiva” lo si tira in ballo ogni volta che assistiamo ai fischi dell’inno nazionale della squadra avversaria o a imprecazioni razziste nei confronti del giocatore che ha una pelle differente da quella a cui si è abituati a vedere a queste latitudini.
Se invece sei un praticante o un addetto ai lavori, come si usa dire, cultura dello sport vuol dire anche la capacità di individuare i tuoi limiti per sapere come e dove intervenire.
Se fai parte di questo mondo sai benissimo che non c’è nulla che si possa anteporre al riconoscimento del merito – ovvero di quella nozione che nel resto della società italiana viene completamente ignorata.
Insomma, lo sport è – o dovrebbe essere – “un’altra cosa”.
È sempre stato così.
Ci dovrebbero essere variabili talmente obiettive da impedire scorciatoie o facilitazioni per chi non ha le caratteristiche per andare avanti, come, in genere accade in altri contesti a cominciare dalla politica, ma non solo.
Le domande
Ma chi dovrebbero essere quelli maggiormente in grado di piantare semi nel terreno?
Di predicare una forma corretta di approccio alla materia sportiva?
Di fare, di un popolo di commissari tecnici, della gente capace di riconoscere cosa sia lo sport ed i suoi valori?
Chi sono queste figure?
Probabilmente coloro i quali hanno un approccio diretto nel mondo sportivo, coloro che hanno delle responsabilità tecniche o dirigenziali ed anche e soprattutto quanti hanno a che fare con la materia della divulgazione.
Il ritratto
Se mescoliamo assieme questi elementi, ne viene fuori un identikit molto chiaro.
L’identikit corrisponde perfettamente alla figura dell’allenatore, a maggior ragione quando questa figura ha sovente attenzioni mediatiche continue:
Quel ruolo non si limita a selezionare i migliori giocatori, a coordinare sedute di allenamento e stabilire principi tecnico tattici per raggiungere i migliori risultati.
Quel ruolo ha una enorme responsabilità anche nei confronti della divulgazione di una certa cultura sportiva.
D’altronde il calcio è lo sport di gran lunga più visto e letto sui mass media e quel ruolo deve essere ben consapevole del fatto che le sue dichiarazioni rivestono un ruolo di enorme rilievo anche nei confronti dei praticanti e nelle tifoserie di altre discipline.
L’affermazione
A tal proposito ho ascoltato le dichiarazioni del Commissario Tecnico italiano dopo la scialba prestazione dell’Italia in Irlanda che non ha consentito alla nazionale di ottenere il passaporto per i prossimi campionati mondiali.
Il C.T. esprime fiducia sulle residue possibilità della nazionale e poi afferma un altro concetto che estrapolo letteralmente:
Non lo può sapere, ma soprattutto non lo può dire.
Un C. T. non può rilasciare una dichiarazione simile.
Perché?
Non ci si aspetta da un uomo di sport che parli come un qualunque politicante che sta per affrontare delle elezioni e che deve mostrare sicurezza e spavalderia perché quegli atteggiamenti possono far presa sull’elettorato.
Un uomo di sport predica la cultura dell’impegno e del sacrificio.
Nessuno meglio di lui sa che solo attraverso quel banco di prova si possono ottenere risultati, non vende la pelle dell’orso prima di averla comprata, e poi quell’orso, a vedere bene, pare ancora vivo e vegeto per essere comprato.
Senza contare il fatto che quella dichiarazione ha un effetto devastante anche nei confronti dei suoi stessi giocatori, i quali psicologicamente sono assolti dalle loro responsabilità.
Un C.T. che non riconosca i limiti della sua squadra, che:
che afferma di aver tenuto il pallino del gioco per tutta la partita
dimenticando che non ha quasi mai impensierito la porta avversaria
le occasioni migliori sono capitate proprio agli avversari
pure se non hanno tenuto in mano il pallino del gioco,
non ha la necessaria lucidità per inquadrare bene che momento sta vivendo la squadra e tutto l’ambiente circostante.
Conclusione
Senza questa obiettività, senza un bagno di umiltà, si è persa una importante occasione di far capire, in un colpo solo, a pubblico e addetti ai lavori, che bisogna ripartire da altre basi, con atteggiamenti differenti e senza mostrare alcuna gratuita arroganza.
Quando si vince c’è fin troppa euforia per costruire messaggi educativi:
la vittoria è esaltante e gioiosa, ma è la sconfitta – o la mancanza di risultati momentanei -il momento migliore nel quale:
E in questo caso l’occasione è andata clamorosamente sprecata.
…talento che ha sempre voluto combattere esclusivamente con le armi a sua disposizione, e nulla di più.
In un mondo pieno di “trucchi del mestiere” non sempre legali (anzi, spesso e volentieri, totalmente illegali), Donato ha scelto di correre contando solo sulle proprie energie:
Il suo nome rimarrà legato a Goteborg dove negli Europei indoor del 1984 realizzò quella che resta una delle migliori prestazioni sugli ottocento metri.
Un quasi record, 1’43”88, che oggi lo colloca a pochi centesimi da quello di Marcello Fiasconaro del 1973.
Donato era molto amico di Pietro Mennea, con cui hanno condiviso la pista di Formia, dove si allenavano nello stesso periodo.
I paragoni con Mennea sono stati molti, forse perché entrambi erano schivi, abituati a lavorare molto secondo una filosofia basata sul sacrificio personale.
Donato è sempre stato elegante e signorile, non solo nel correre ma anche nel suo modo di rapportarsi con gli altri.
Quando Mennea se ne andò, nel marzo del 2013, al suo funerale fu proprio Donato Sabia, quel ragazzo schivo, riservato, a volte perfino timido, a confortare tutti.
Era addolorato ma dentro aveva quella luce di tranquillità che anche quella volta consegnò al mondo dell’atletica presente ai funerali della “Freccia del Sud”, quasi a voler dire:
I valori sportivi
Qualcuno scrisse di Donato che “oltre a essere il più forte tra i quattrocentisti e gli ottocentisti, era una sorta di sindacalista:
si era erto a paladino di un gruppo di atleti che non erano stati presi in considerazione dalla federazione”.
Una volta ad un meeting internazionale a Milano, chiese allo speaker della manifestazione di farsi dare il microfono perché voleva comunicare al pubblico presente tutte le ingiustizie che certa parte dell’atletica (la staffetta 4 x 400) stava subendo per le imminenti olimpiadi.
E anche se quel microfono gli fu negato.
Sabia mise il suo petto davanti a tutti i giornalisti che si avvicinarono per cercare di capire cosa fosse successo, per rivendicare i diritti di una serie di atleti che l’Olimpiade l’avevano meritata con i risultati.
Sulla pista fu indomabile, ma anche molto sfortunato.
I carichi di lavoro pesantissimi si fecero sentire.
A 27 anni Sabia aveva dolori continui e si infortunava spessissimo.
La sua carriera si chiuse troppo presto, con molti rimpianti e con delle polemiche accesissime.
Di quel periodo, il suo allenatore Sandro Donati racconterà:
“Anche se non ufficialmente, era stato emarginato dalla squadra perché aveva rifiutato le pratiche del doping, eravamo soli, nessun sostegno economico”.
Dopo aver concluso la carriera agonistica, ritornò a casa e gli ultimi anni li ha trascorsi da Presidente della sezione lucana della Federazione italiana di atletica leggera, dove ha continuato, anche a livello istituzionale, la sua battaglia contro il doping.
Poteva essere il più grande di tutti nell’atletica, è stato grande nelle scelte.
E nella città in cui è nato rappresenta ancora oggi un esempio limpidissimo e inscalfibile di un uomo integro e inattaccabile e la sua figura continua a dimostrare a tutti come un atleta del suo calibro possa continuare ad essere un punto di riferimento per una intera comunità.
Non ci sembrava vero quando Jacobs passò per primo al traguardo dei 100 metri, dovemmo rivedere il replay più volte per convincerci che, dopo i grandi mostri sacri del passato da Carl Lewis a Usain Bolt, toccasse proprio a un italiano!
L’Italia che a quella gara non era mai neppure arrivata in finale da…
…tempi immemorabili (Mennea nel 1980 nella specialità era arrivato in semifinale).
Inaspettato
Poi arriva questo ragazzotto di colore ed origini texane ma cresciuto in Italia fin da bambino, che addirittura ha anche più di qualche difficoltà a parlare inglese, a regalarci non solo la finale, ma addirittura la medaglia più ambita!
Lo abbiamo dovuto vedere più volte senza nemmeno respirare quello sprint pazzesco che ha regalato un successo insperato e, per questo, ancora più bello.
E già in Italia si gridava al miracolo:
tralasciando le attribuzioni di paternità geografica dell’atleta che provengono nientedimeno che dal presidente della regione Lombardia della Lega, ovvero di quel partito che più degli altri è assolutamente contrario all’immigrazione!
mentre tutti i “sani di mente” ponevano l’accento sul fatto che ormai le società sono multietniche e multirazziali, altrimenti non vedremmo, ad esempio, in Francia una quantità inimmaginabile di uomini e donne di colore, tanto nella società civile che sui vari campi sportivi.
Ma si sa, ormai tutto si butta in caciara (cioè in politica) ed ogni pretesto è buono per affermare i propri convincimenti o contrastare gli avversari.
Ragion per cui cercheremo di non cadere nella trappola e considerare questi atleti per ciò che sono, ovvero dei semplici figli della multirazziale società contemporanea.
Ma la cosa mica finisce qui
Con la vittoria di Jacobs ci sentivamo già sufficientemente appagati, mentre pochi minuti prima di quella gara un altro atleta (stavolta nato e cresciuto in Italia) ci regalava l’oro nel salto in alto:
In pochi minuti eravamo diventati la nazione che correva più veloce e saltava più in alto del mondo.
Ora non so se ti capaciti di quello che questa cosa vuol dire, ma di suo ha un’importanza enorme.
La avrebbe ovviamente per qualunque paese, ma per l’Italia di questo 2021 ne ha ancor di più.
Un paese che:
pare uscire come un gigante dal periodo più buio che l’umanità abbia passato
poche settimane prima era uscita vincitrice da una competizione sportiva europea nello sport più amato battendo l’Inghilterra
si qualifica alle Olimpiadi anche nel basket dopo non so più quanti secoli e fa pure una eccellente figura prendendosi il lusso di giocarsela punto a punto persino con i vice campioni del mondo (Francia)
complessivamente rafforzando un po’ dappertutto la propria presenza in ambito sportivo in discipline che per decenni non ci vedevano più ai vertici.
Nel frattempo arrivano anche altre medaglie, qualcuna pure particolarmente preziosa:
Poi, insperatamente, ancora una volta come molte altre gare, arriva un’altra affermazione di quelle che nessuno ci credeva:
l’oro nella staffetta 4×100
In questa staffetta (manco a dirlo) corrono due atleti di colore, tra cui Eseosa Desalu (ma abbiamo detto di non buttarla in casciara, e allora niente).
C’è ovviamente ancora Jacobs che corre la seconda frazione e nei suoi 100 metri ne guadagna tanti, ma non basta ancora e Lorenzo Patta.
Finchè un sardo milanese, Tortu (quello della pubblicità della fibra ottica) fa capire che hanno scelto il testimonial giusto e si va a prendere (ancora una volta contro gli inglesi) l’ennesimo oro per i nostri colori.
Il gesto di togliersi quella medaglia dal collo come fosse una macchia da cancellare.
Da calciatori che militano nei maggiori club europei e che difendono i colori di una gloriosa nazione, non è stato bello da vedersi.
Che il pubblico…
…fischi sull’inno nazionale è certamente deprecabile, ma lo è ancora di più il gesto di un addetto ai lavori che non è un Carneade che paga il biglietto e fa quel che vuole.
Non posso credere ad un ordine di scuderia.
Nessuno arriva a pianificare una simile bassezza.
E allora c’è un solo modo per spiegarlo:
Non voglio andare a rivedere chi sia stato il fenomeno, e nemmeno mi interessa, ma ha sbagliato alla grande.
Peggio ancora hanno fatto i pappagalli che gli sono succeduti.
Un errore enorme per molte ragioni:
Per aver ripudiato un risultato di grande prestigio.
Ripudiare quella medaglia vuol dire non cogliere l’onore e il rispetto che conferisce l’essere arrivati così in alto.
Per il messaggio che comporta per tutti i giovani giocatori che lo hanno guardato.
Un messaggio fortemente diseducativo che rende lo sport accettabile solo in un caso.
Se perdi puoi mandare tutto a carte 48, al diavolo il Fair play, al diavolo l’onore delle armi, al diavolo questa competizione e soprattutto al diavolo chi ha vinto.
A che serve che Southgate vada a dare la mano a Mancini a fine gara?
A che serve applaudire e ringraziare i tifosi dopo la sconfitta?
A che servono anni e anni di disciplina, di etica e di riconoscimento del valore di una sconfitta quale spinta da cui ripartire se poi in un minuto vanifichi tutto?
In ultima analisi vuol dire anche un’altra cosa che per un giocatore è forse la più importante:
rifiutare il fatto che hai commesso una quantità di errori e, attraverso quel rifiuto di indossare una onorevolissima medaglia, credere che quella coppa ti è stata trafugata ingiustamente.
Potrebbe sembrare strano ma tante sono state le emozioni che si sono susseguite prima – durante e dopo il lancio del blog.
Una su tutte l’incertezza sull’essere in grado di…
…avere la costanza necessaria per tenere alte le aspettative, nonostante tutto il progetto rimanga basato su un’idea senza scopo di lucro bensì di semplice divulgazione e scambio d’idee.
Non era scontato riuscire ad arrivare alle persone in modo spontaneo e collaborativo, seppur con l’aiuto di autorevoli ideatori d’interessanti articoli
Di sicuro la voglia di mettere in pratica questo progetto era tanta quindi ho messo da parte tutti i timori che oggettivamente avevo e sono andato dritto all’obiettivo
I punti di forza
Non è facile affermare se sono stati raggiunti i traguardi prefissati anche perché possono cambiare da persona a persona ed essere misurati su basi diverse:
numero di utenti raggiunti (90000 circa)
tempo trascorso sul proprio blog (12 minuti ad utente):
numero di lettori che hanno letto fino in fondo gli articoli (52000 circa)
la quantità di articoli prodotti (130 circa)
il monitoraggio delle newsletter
Ma come in matematica anche in questo caso i numeri devono essere verificati (la prova del 9) ed io l’ho fatto soprattutto tramite le miriadi di email e messaggi che ho ricevuto e ricevo in privato
Le difficoltà
È stato un duro lavoro:
impegnarsi a formulare,
impaginare
anche gli articoli dei tanti amici che hanno collaborato
rendere quando più leggibile possibile ciò che si voleva trasmettere
investire in tempo ed energia
trovare il giusto equilibrio tra
la qualità degli argomenti
la puntualità nella pubblicazione
la quantità mensile degli articoli
Grazie ai “cosiddetti” esperti
Senza di loro sarebbe stato impossibile raggiungere questi grandi obiettivi.
La particolarità, l’originalità, il valore degli articoli e degli argomenti trattati hanno fatto in modo da dare pregio e finalizzare quanto avevo da tanto tempo nella mia testa.
Li rinomino singolarmente perché ci hanno donato, gratuitamente, delle loro riflessioni ed osservazioni nello spirito della formazione comune.
Visto che il grafico delle visualizzazioni è in continua crescita viene da sé che il primo obiettivo non è continuare a salire (me lo auguro comunque) ma rimanere costanti nelle aspettative.
Cercheremo di continuare a pubblicare articoli di buona qualità trovando un modo per stimolare e coinvolgere i tanti lettori nelle pubblicazioni inerenti alle tematiche del blog.
Si punterà a raggruppare i tanti articoli pubblicati in categorie visibili per facilitare la consultazione ed in previsione creare una newsletter
Al di là della cifra tecnica, per me va rispettata una regola che riguarda tutte le dinamiche di gruppo, in particolar modo per quei gruppi che sono formati per il raggiungimento di obiettivi (orchestre, militari, squadre) e questa regola, piaccia o meno, ha a che fare con il concetto di gerarchia.
Milano è un’orchestra di splendidi esecutori ma con un unico difetto:
Un piccolo difetto che sul campo diventa macroscopico specie quando deve compattarsi nelle fasi decisive della battaglia quando ogni piccola decisione può portare a vincere o perdere.
E questo non lo puoi cambiare o modificare in due giorni.
O lo hai individuato ex ante oppure continuerai ad affidarti alla vena dei singoli.
Se a questo aggiungi il fatto di giocare la prima partita in casa, la bilancia avrebbe dovuto pesare tantissimo per la Virtus ed essere molto più leggera dall’altra parte.
Ma gli occhi vitrei di Messina e Datome hanno reso chiaro il fatto che Milano abbia una certa difficoltà a gestire il clima psicologico.
Lo si capisce davanti alle reazioni sui primi errori della squadra.
Non è così che si affronta sul piano mentale una partita.
La parola d’ordine dovrebbe essere: tolleranza; la seconda: positività.
Secondo aspetto (collegato al primo): sicurezza.
Milano (opportunamente) sceglie di cambiare le carte e giocare con un centro puro per alzare l’energia e l’intimidazione di Bologna.
Scelta che produce più solidità, rimbalzi, secondi tiri.
Ma dopo pochi minuti il centro non si vede più in campo.
Chi siamo? Quelli più atletici e dinamici di sempre o quelli più muscolari di stasera?
L’identità della squadra va in vacanza.
Terzo aspetto
Quegli altri difendono ogni palla come se non ci fosse un domani. Risultato: una corazzata come Armani lasciata a 58.
Saranno pure stanchi, ma mi sembra che ci sia anche qualcos’altro.
Quarto aspetto
Qualcuno saprebbe spiegarmi che giocatore è Micov? No, perché io non riesco a definirlo.
Non di poco conto è il fatto che, tranne rarissimi istanti, in tutte e tre le partite, i bolognesi sono per larghi tratti (circa 38 minuti su 40), davanti nel punteggio.
Non voglio parlare di supremazia, ma siamo vicini.
Milano 0 – Bologna 3
Gara 4
La riconoscenza
Il primo pensiero va alla dirigenza di Bologna.
Come si sentiranno dopo aver esonerato e poi aver dovuto ingoiare il richiamo dell’allenatore che poi li ha portati allo scudetto? Un minimo di vergogna sarebbe il minimo, oltre alle scuse.
Il secondo va a un ragazzo di 21 anni che accanto a giganti che hanno vinto titoli europei e mondiali non solo non sfigura ma è quello che dà la carica, difende per tre, non perde una palla e fa canestri decisivi.
Il terzo è per un veterano che in NBA ha fatto i numeri, torna in Italia, accetta la sfida di una società che non vinceva lo scudetto da 16 anni, e nonostante cerchino di asfissiarlo, continua a segnare in ogni modo: da fuori, da sotto, su due piedi e pure palleggiando su un piede solo.
No, sul direttore d’orchestra non dico nulla. Tranne il fatto che continuare a incantare e fare assist come manna dal cielo e punti decisivi non è affatto scontato.
Infine la difesa. Qui basta vedere i parziali dei quarti per capire anche la gara 4 che tipo di trend abbia avuto: 19-24, 22-19, 14-8, 18-11, e capire che Virtus ha progressivamente spento gli avversari come una candela.
E allora se sei un giovane allenatore, chiudi i libri, smetti di andare ai corsi, tagliati la partita e guarda una decina di volte al giorno soltanto le azioni difensive della Virtus. Ne uscirai un allenatore migliore.
La cosa curiosa dei tabelloni segnapunti (e segnatempo) è che se potessero registrare gli sguardi, diventerebbero incandescenti a mano a mano che la partita volge verso la fine.
Se fossi un esperto in matematica direi che il tabellone lo si guarda in maniera inversamente proporzionale allo scorrere del tempo.
il primo per l’evento agonistico in sé che si svolge sul campo,
il secondo per il tabellone,
il terzo per il tavolo dei giudici (a cui ci si interfaccia per le operazioni amministrative della partita).
Ebbene sì, anche una partita ha le sue pratiche burocratiche da espletare.
Il tabellone
Eppure quel tabellone che fa sospirare e penare, dannare e gioire, quei piccoli cristalli rossi che si illuminano formando sostanzialmente numeri, tutta quella roba lì è un grande ingannatore.
Non perché sia bugiardo in sé (non c’è cosa più veritiera dei numeri, com’è noto), ma perché quel tabellone,
Il risultato finale
Sto parlando del risultato finale.
Quale unico ed assoluto giudice di ogni valutazione ex post di una prestazione?
E sto anche cercando (e sarà impresa non poco faticosa) di dimostrare che quel tabellone deve iniziare ad avere un’importanza relativa e non già assoluta nelle valutazioni di uno staff tecnico e di una società circa la performance della squadra.
Va bene, lo ammetto che la questione è spinosa assai e che investe direttamente la vecchia dicotomia tra fare sport per il gusto di farlo e farlo esclusivamente per vincere.
E’ esattamente il metro con cui si valuta lo sport semiprofessionistico e professionistico.
È questione spinosa anche perché deve ribaltare uno degli assiomi più antichi dello sport e cioè che quest’ultimo è vero solo in funzione dei risultati e che nulla conta al di fuori di quelli, che chiunque viene valutato per quanto ha vinto, eccetera eccetera.
Che se mi permettete, questa è solo una delle variabili in gioco (importante certo, ma ce ne sono anche delle altre).
Quante volte:
ci siamo sentiti dire che la nostra squadra meritava di vincere?
il pubblico ci ha applauditi anche dopo una sconfitta?
gli allenatori avversari si sono sinceramente complimentati per la prestazione fatta anche quando siamo usciti dal campo con le pive nel sacco?
La formalità
Orbene, il mio tentativo da queste colonne sarà tutto teso a dimostrare che tutta quella roba lì, che è accaduta a tutti, certamente anche più di qualche volta, è tutt’altro che formale e che la vittoria non è assolutamente l’unico parametro di valutazione per arrivare a definire se la nostra programmazione, la nostra conduzione di una gara e – purtroppo – non l’epilogo della stessa non sono da buttar via soltanto perché alla fine il punteggio ci vede sconfitti.
Ovvio considerare che se abbiamo perso ci manca ancora qualcosa, ma facciamo veramente attenzione ogni volta ad entrare nel merito della prestazione per sottoporla ad una attenta scannerizzazione che riguarda i quaranta minuti di gioco e non, magari, l’ultimo sfortunato episodio.
Proviamo anche a mettere in atto un’altra strategia.
Quel tabellone fatto di led luminosi rossi che cambiano vertiginosamente con il variare del punteggio, dei tempi di gioco e dei falli, proviamo a guardarlo un po’ meno spesso.
Quel tabellone ci condiziona tremendamente, inconsciamente, subliminalmente.
Faccio un esempio.
A inizio terzo quarto siamo avanti di venticinque:
Ritengo che il tabellone sia paradossalmente un nemico più della squadra che è avanti nel punteggio di quella che è in svantaggio.
Quei numeri dicono cose che possono entrare prepotentemente in quella delicata cosa che sono le motivazioni agonistiche che molto spesso spostano gli equilibri con la stessa facilità con cu si ribalta la famosa “inerzia”.
Ovvero quella miscela chimica e psicologica che nessuno ha mai capito fino in fondo ma che tutti gli allenatori conoscono e la “sentono” nell’aria prima che la situazione venga poi di fatto ribaltata sul campo anche se fino a pochi minuti prima il risultato sembrava aver preso una direzione precisa.
Conclusione
E allora, per concludere, qui nessuno vuole scomodare De Coubertin e assecondare quel suo cavalleresco e assai poco attuale aforisma,
in un’epoca nella quale, non solo nello sport, tutti vogliono spudoratamente vincere, sempre e comunque, con ogni mezzo, perfino quelli illeciti.
Tutto si giustifica nella moderna società della competizione sull’altare del “vincere e vinceremo”. (Duce, ci scusi la citazione).
Eppure sento che la vera e profonda ragione per giudicare cosa siamo veramente, cosa abbiamo realizzato veramente in quella partita, cosa serve veramente per trasformare quel granello di sabbia che è mancato nella valanga che occorre per superare la corrente:
Due considerazioni finali
La prima è che nessuno gioca mai a perdere e tutto questo non riguarda affatto l’aspetto delle giustificazioni o degli alibi per una sconfitta
quella sì, che sarebbe una cosa esecrabile.
La seconda è una parziale correzione della storia, ovvero del detto di De Coubertin e del senso che voleva dire.
Quel detto non è affatto farina del suo sacco: lo pronunciò per primo nella storia un filosofo greco che non avrebbe mai detto una cosa così scontata, perché quel filosofo disse in realtà:
“L’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente”.
In questo blog abbiamo sempre ospitato con estremo piacere ed interesse interventi di addetti ai lavori in campo sportivo che hanno dato sempre, ciascuno con la propria specializzazione, un contributo importante ed esclusivo per accrescere la cultura dei tanti amici che seguono questa testata.
Proprio sull’argomento “cultura”, intendiamo però aprire anche a contributi diversi da quello intrinsecamente di natura sportiva.
Crediamo infatti che…
…l’accrescimento della consapevolezza prescinda dalla singola materia e costituisca una crescita personale che riguarda anche altri campi, diversi e complementari a quello sportivo.
Abbiamo già in passato tentato un esperimento del genere.
Qualche mese fa abbiamo mandato, con eccellenti risultati in termini di ascolti, le puntate di un progetto che riguardava il tema dei diritti umani, che aveva nello sport un punto in comune con lo spirito di questo blog.
Dello stesso autore di quel lavoro, Dino De Angelis, già allenatore di pallacanestro, vorremmo adesso ritentare l’impresa.
Questa volta l’argomento in questione c’entra ancor meno con la mission di progetto, ma crediamo che valga la pena anche stavolta di ospitare il tema che l’autore ci propone.
In questo caso si parlerà di uno dei casi più discussi sul mondo della musica italiana:
Immetteremo anche stavolta delle puntate consecutive che ci parleranno della biografia di questo cantautore scomodo.
Ricordando a noi stessi che
a volte forse proprio nella difformità dalla massa, nella ricercatezza e in un nuovo approccio al proprio mondo professionale,
si può trovare un modo per resistere alla dilagante omologazione di cui la nostra società era vittima prima, oggi ancor di più.
Pensiamo che sia un messaggio che si possa adattare benissimo anche a noi che ci occupiamo di attività sportiva.
Costa certamente maggiore fatica andare a cercare situazioni poco comuni e altrettanto poco omologate, ma crediamo che la sperimentazione costituisca sempre un valore aggiunto anche rispetto ai nostri percorsi.
L’esempio di Luigi Tenco ce lo dimostra in maniera inequivocabile.
Uno dei più classici oggetti che fanno parte della vita di un allenatore e che lo accompagna non solo la domenica, è il taccuino.
Sul taccuino l’allenatore ci scrive DI TUTTO.
Non si può fidare della sua sola memoria, e allora il taccuino serve a raccogliere ogni tipo di informazione che gli servirà a definire meglio il suo lavoro quotidiano e i suoi obiettivi.
Su quei taccuini si sono…
…vinte più partite di molte faticose sedute di allenamento e in quelle pagine non ci sono soltanto schemi ed esercizi.
Ci sono anche frasi e annotazioni che aiutano il coach a focalizzare meglio i suoi obiettivi.
Gli sbagli
Nei lunghi decenni in cui ho avuto la fortuna di allenare, trascrivevo ogni anno alla prima pagina di ogni nuovo taccuino la seguente frase, mutuata da un sillogismo aristotelico:
Questo monito serviva a ricordarmi, ogni giorno della mia carriera, che un allenatore è, prima di tutto, quello che sbaglierà più di tutti.
La ragione di questo è molto semplice.
Il basket è lo sport in cui per eccellenza un allenatore opera delle scelte continuativamente:
mentre qui possiamo, sì e no, limitarci a dare dei piccoli input, soggettivi e limitati alla sola esperienza di chi scrive.
Le gerarchie
La dinamica insita nelle scelte di chi far giocare prima, chi dopo, e chi solo se scende la Madonna, la definizione di chi giocherà i minuti decisivi, sono decisioni connesse ad un altro sacramento non scritto che vige nello sport in generale e in particolare nel basket:
la presenza di gerarchie indispensabili.
Ogni squadra ha la sua intrinseca chimica dei fattori interni, nella quale si può intravedere chiaramente un mix tra giocatori di esperienza, giocatori di media affidabilità, la presenza di una o più star, e giovani.
Questo mix definisce le dinamiche di una squadra e la àncora ad un principio gerarchico che è necessario conoscere, definire e condividere.
Qui pure si aprirebbe un capitolo che si trova a metà strada tra la chimica e le dinamiche di gruppo.
La chiarezza
È altamente raccomandabile che l’allenatore chiarisca preliminarmente alla squadra il criterio gerarchico da lui individuato per risolvere immediatamente la prima e più importante minaccia a cui il gruppo è sottoposto:
Ciascun giocatore deve sapere esattamente il suo peso all’interno della squadra: “l’accettazione di quel ruolo (non in senso tecnico ma come rilevanza) definirà il grado di compattezza di tutto l’assieme”.
Se sono un giocatore importante devo sapere che la squadra, l’allenatore e i compagni, si aspettano da me:
che giochi un certo minutaggio
che mi assuma determinate responsabilità
che porti sulle mie spalle un certo peso sul buon andamento della partita
e che sia pronto a farmi pienamente carico di tutto questo.
Se sono un giocatore giovane, arrivato per fare esperienza, devo sapere:
di non aspettarmi grandi minutaggi
che dovrò faticare per conquistare la fiducia di tutti
che devo aiutare gli altri ad allenarsi bene
tutto quello che verrà di più sarà guadagnato.
Il motivo della gerarchia
Dentro queste gerarchie si suddividono proporzionalmente anche le percentuali di merito/demerito che vanno redistribuite di pari passo con i successi o gli insuccessi della squadra.
La pallacanestro da questo punto di vista raramente ha commesso errori nell’attribuzione esatta delle responsabilità, nel fermo convincimento che è poi tutta la squadra a far fronte comune davanti ai successi o agli insuccessi.
La definizione delle gerarchie aiuta l’allenatore anche a compiere le scelte migliori nei famosi frangenti decisivi delle partite.
Se devo scegliere a chi affidare la conclusione che mi farà andare in paradiso o all’inferno, credo sia difficile che quella conclusione possa metterla nelle mani di un giovane con poca esperienza:
Questo è quello che capita nella stragrande maggioranza delle squadre.
L’eccezione che conferma la regola
Poi un giorno, un allenatore di Caserta che allena la squadra della sua città, arriva a giocarsi una finale scudetto in trasferta a Milano, e sul time out della quinta e decisiva partita, a meno di due minuti dal termine della gara che avrebbe assegnato l’unico scudetto della storia ad una squadra del Sud, si avvicina non al giocatore esperto, ma ad un ragazzo poco più che ventenne e gli chiede:
Questa mattina sui giornali la presentazione del nuovo format ideato dal nostro Dino De Angelis che, come annunciato, ci donerà, secondo la filosofia della nostra piattaforma, in modo totalmente gratuito.
Ciò che dobbiamo fare è dedicargli qualche minuto del nostro tempo e, magari, condividendo, quando e se vorrete.