Se ti alleni tutto l’anno, può capitare che un giorno salti una sessione di allenamento, ma se salti 2-3 settimane di seguito cosa succede?
Se smetti di allenarti per più di una settimana, inizierai a sperimentare gli effetti del “Detraining”, un fenomeno nel quale si perdono i benefici dell’allenamento e di conseguenza la…
…sospensione prolungata degli allenamenti riduce il livello della tua preparazione fisica.
La perdita della “forma fisica” dipende da molteplici fattori:
il tempo lontano dalla palestra, dal campo di allenamento, dalla piscina
Più sei allenato, più tempo impiegherai per andare “fuori forma”.
I cambiamenti
Quando smetti di allenarti avvengono in te molti cambiamenti fisiologici e inizi a perdere:
i progressi cardio-vascolari che avevi ottenuto (ad esempio il cuore inizia a perdere la sua capacità di gestire volumi aumentati di sangue e l’abilità a pompare sangue più efficientemente);
l’abilità del corpo di utilizzare i carboidrati come “carburante” e la migliorata capacità muscolare di utilizzare l’ossigeno
cioè cala il volume massimo di ossigeno consumato in un minuto (V02 max);
i miglioramenti acquisiti sulla pressione del sangue, sui livelli di colesterolo e di glicemia e se facevi allenamenti di forza, il tuo volume muscolare, la tua forza e la resistenza si ridimensioneranno;
in 2-4 settimane la maggior parte delle capacità aerobiche guadagnate in 2-3 mesi di allenamento;
la forza, la potenza e la resistenza muscolare e sebbene la forza possa essere mantenuta fino alle 3-4 settimane di inattività, la potenza e la resistenza potrebbero ridursi significativamente.
Gestisci meglio il Detraining
Il “Detraining” ha effetti negativi sulla composizione corporea ed è associato all’aumento di peso e alla diminuzione del metabolismo basale.
Diversi fattori possono contribuire all’aumento del grasso corporeo quando smetti di allenarti.
Quando perdi massa muscolare il tuo fabbisogno calorico diminuisce in contemporaneoa anche il metabolismo basale perché i tuoi muscoli riducono la capacità di bruciare calorie.
Inoltre, non stai più bruciando la stessa quantità di calorie perché ti stai allenando di meno,
E dopo?
E’ difficile prevedere quanto tempo ci vorrà per ritornare al tuo livello di forma fisica precedente e una cosa che giocherà sicuramente in tuo favore è la tua “memoria muscolare”.
I tuoi muscoli hanno delle cellule speciali che “ricordano” i movimenti che facevi durante l’allenamento, quindi quando tornerai ad allenarti dopo un lungo periodo di stop, riacquisterai la tua forma fisica più velocemente.
Però ti consiglio di:
ricominciare ad allenarti in maniera “soft” per evitare infortuni;
aspettare 3-4 settimane prima di arrivare a seguire i tuoi allenamenti abituali;
avere pazienza e perseveranza e credere che ritornerai più forte di prima.
L’educazione dei bambini è un compito che spetta a tutti, alle famiglie, alla comunità, alla scuola, allo Stato, è un’educazione quindi integrata dove ognuno è responsabile allo stesso modo.
L’educazione dei bambini è il compito più nobile che ogni persona ha se vuole sentirsi uomo.
Non esiste un metodo perfetto, IL METODO, quel metodo da applicare ad ogni situazione e in ogni classe, capace di…
…risolvere ogni problema, altrimenti basterebbe un libretto delle istruzioni tradotto nelle varie lingue del mondo.
Avere un metodo serve però per facilitare il lavoro degli insegnanti, degli educaotori sportivi e per indicargli delle strategie in grado di motivare i bambini e i ragazzi allo studio e alla ricerca.
Si riporta tutto a schemi predefiniti e a regole precostituite, mentre invece alla base ci deve essere la disponibilità dell’insegnante a sperimentare, a scegliere non una nuova metodologia ma un nuovo modo di verificare, di fare vera, la sua pratica didattica.
La didattica enattiva dall’inglese to enact significa “mettere in atto”.
Una sorta di “mente incorporata”, una mente assorbente in continuo collegamento con le sensazioni che provengono dal mondo esterno e che la rendono attiva ed interattiva.
Il processo enattivo è quel profondo gioco di scambio tra interno ed esterno attraverso il quale l’atto cognitivo non è scindibile dall’atto esperienziale e dalla risonanza emotiva.
Il sentimento è conoscenza, l’educazione emotivo-sentimentale serve ad incanalare le nostre pulsioni naturali, istintuali, nel comportamento consapevole che ci permetterà di scegliere tra il bene e il male, tra ciò che è grave e ciò che non lo è.
si contestualizzano e accentuano la motivazione ad un apprendere pragmatico, per cui il “sapere” e il “saper fare” confluiscono positivamente nel “saper essere”, e le “conoscenze” e le “abilità” si realizzano nelle “competenze”.
Oltre l’acquisizione
La costruzione delle competenze è proprio la possibilità di utilizzare le conoscenze e le abilità per poterle trasferire da un dominio all’altro in modo da impostare e risolvere un problema.
Pensiero, emozione e movimento pagano in parti uguali l’affitto al nostro corpo, la coabitazione non è forzata ma necessaria e piacevole.
Le emozioni e il movimento fanno maggiore confusione ma è proprio questa vivacità che alimenta il pensiero e facilita l’apprendimento.
Nella didattica enattiva l’essenziale di ogni apprendimento non è l’acquisizione:
di conoscenze
l’accumulo di abilità
lo sviluppo di capacità
ma è la possibilità di usare quello che è stato appreso per risolvere situazioni nuove e concrete.
La didattica privilegiata, in tal senso, è di tipo laboratoriale “per problemi”, “per situazioni autentiche”, improntata all’operatività che porterà ad essere curiosi di ogni novità.
Facendo si impara prima e meglio:
se poi il fare diventa un co-fare, un collaborare allora l’apprendimento sarà più piacevole e più simile ad un’esperienza di sport di squadra.
Il gruppo è chiamato a “risolvere un problema” impegnandosi in un progetto nel quale ognuno coopera secondo le proprie potenzialità e attitudini.
In questo contesto lo studente non solo diventa l’attore del processo conoscitivo, ma si abitua anche a comunicare, a confrontarsi e ad organizzare con gli altri.
La didattica enattiva saldando la corporeità con i processi mentali avvia una didattica per competenze che vede gli insegnamenti scolastici finalmente interconnesse in modo da attivare un insegnamento trasversale e in rete e non più lineare e sequenziale.
Mente e corpo formano un tutt’uno che consente un “insegnamento in situazione” in cui le funzioni manipolative, rappresentative e simboliche vengono apprese attraverso una sperimentazione continua che ogni alunno fa nella sua vita di relazione con i compagni e con l’insegnante e nel contatto attivo con le cose.
Ogni cosa ha la sua importanza, questa è stata l’intuizione delle sorelle Agazzi che con le loro cianfrusaglie, costituite da tutto il materiale occasionale che i bambini raccoglievano per strada e tenevano in tasca perché suscitava il loro interesse, organizzavano le attività didattiche.
I bambini scelgono a volte gli oggetti più impensati che stimolano la loro inventiva.
E’ inutile dar loro degli attrezzi già precostituiti.
La didattica enattiva trova la sua migliore realizzazione nella metodologia della ricerca-azione, intesa come una ricerca per l’azione, per cui il tema viene avvertito come problema in modo che crei una tensione ad apprendere.
Un’altra metodologia efficace legata ai principi della didattica enattiva è il coaching.
Un metodo finalizzato al miglioramento delle prestazioni e al raggiungimento di obiettivi di maggior valore tramite la scoperta e lo sviluppo delle potenzialità personali.
Affidandosi al “coach” lo studente che ha delle potenzialità latenti impara a scoprirle e ad utilizzarle.
Il coach, quindi, è un facilitatore del cambiamento, una persona che stimola e indirizza le energie dello studente e lo aiuta a prendere consapevolezza delle sue intelligenze.
La tenerezza
La didattica enattiva per potersi realizzare fa leva sull’unica qualità indispensabile per un educatore, una dote naturale che non si può acquistare né acquisire in nessun corso di formazione: la tenerezza.
In una delle ultime lettere che Vincent van Gogh scrisse al fratello Theo si legge:
«Voglio che la gente dica delle mie opere: “sente profondamente, sente con tenerezza.».
Sentire con tenerezza è probabilmente il testamento spirituale ed artistico del grande pittore olandese.
Non è un sentire con l’orecchio, Vincent se ne taglierà uno in una sua crisi depressiva per poi donarlo ad una cameriera di una casa di prostitute, ma è un sentire con un orecchio interno, incorporato, un terzo orecchio, capace di percepire le nostre sensazioni profonde per poi arrivare a sentire quelle degli altri.
Un’interazione funzionale con l’ambiente e con lo stato d’animo di chi ci sta vicino e chiede disperatamente senza parole il nostro aiuto.
E’ necessario imparare ad esercitare la tenerezza soprattutto quando si lavora con i bambini, con i ragazzi, con gli adolescenti in via di formazione per sentire quello che loro sentono.
Questa empatia permette di essere antenne di ciò che stanno vivendo, di essere collegati con le loro emozioni per cercare di camminargli a fianco senza essere visti come importuni invasori.
La testimonianza
Platone nel Simposio tesse un bellissimo elogio alla tenerezza dicendo che Eros stabilisce la sua dimora nell’anima degli uomini, ma non in tutte indiscriminatamente: se ne incontra una caratterizzata dalla durezza, si allontana, mentre se si imbatte in un’anima caratterizzata dalla tenerezza vi si trattiene.
Siccome dunque è sempre a contatto, con i piedi e con tutto il resto, con quello che vi è di più tenero tra le cose tenere, Eros è il più tenero degli esseri. Simile tende al simile.
Gli studenti vivono nel periodo della pubertà una fase erotica per cui vanno appassionati, ogni insegnante può imparare a camminare e a fermarsi su questo terreno tenero, e non c’è niente di più tenero, di più delicato, di più fragile e di più bello dei bambini, dei ragazzi, degli adolescenti in formazione.
Educare ci porterà a:
cambiare i nostri castelli mentali pieni di idee negative
di forze distruttive, di tensioni accumulate, di passati troppo presenti,
costruire una vita serena ed equilibrata valutando le cose con ottimismo e col giusto umorismo
avere relazioni fiduciose con gli altri compensando i piaceri con i doveri
svolgere attività stimolanti e fantasiose
ritrovare la semplicità nelle cose per una sana gioia di vivere.
Con i bambini bisogna scegliere la dimensione organizzativa che dia spazio alle situazioni di libera esplorazione inserendo il lavoro percettivo nei tempi giusti e con modalità ludiche.
Dopo ogni movimento il cervello non è più lo stesso, nel suo interno alcuni neuroni si svegliano e questo lo arricchisce di nuova vita.
Esplorare
L’esplorazione di nuove azioni motorie ci darà altre possibilità di esistenza, allargherà le nostre conoscenze sul mondo, ci aprirà ad una maggiore scelta tra i comportamenti ed alla fine tutto questo ci porterà alla nostra coscienza autentica, ci farà toccare la libertà.
Non c’è nessun movimento che si può comprendere fino in fondo se non lo si vive completamente.
Se all’improvviso si svegliano un certo numero di cellule nervose del cervello esse potranno finalmente vivere, destandosi dallo stato di letargo nel quale le abbiamo confinate.
La mattina, appena ci alziamo dal letto, possiamo partire dal semplice spazzolarci i denti con la mano che di solito non si usa.
Ricordiamoci che non ci sono gesti sbagliati, goffi, e neanche giusti e perfetti, perché tutti i movimenti hanno significati e sviluppi imprevedibili.
La lingua inglese offre grandi possibilità di usare poche parole che rimandano a vasti significati e allora anche io utilizzo la versatilità di questa lingua cambiando “brain” con “motion”, (è un cambio-scambio visto che la mente e il movimento interagiscono in continuazione), produco il mio
In questo blog abbiamo sempre ospitato con estremo piacere ed interesse interventi di addetti ai lavori in campo sportivo che hanno dato sempre, ciascuno con la propria specializzazione, un contributo importante ed esclusivo per accrescere la cultura dei tanti amici che seguono questa testata.
Proprio sull’argomento “cultura”, intendiamo però aprire anche a contributi diversi da quello intrinsecamente di natura sportiva.
Crediamo infatti che…
…l’accrescimento della consapevolezza prescinda dalla singola materia e costituisca una crescita personale che riguarda anche altri campi, diversi e complementari a quello sportivo.
Abbiamo già in passato tentato un esperimento del genere.
Qualche mese fa abbiamo mandato, con eccellenti risultati in termini di ascolti, le puntate di un progetto che riguardava il tema dei diritti umani, che aveva nello sport un punto in comune con lo spirito di questo blog.
Dello stesso autore di quel lavoro, Dino De Angelis, già allenatore di pallacanestro, vorremmo adesso ritentare l’impresa.
Questa volta l’argomento in questione c’entra ancor meno con la mission di progetto, ma crediamo che valga la pena anche stavolta di ospitare il tema che l’autore ci propone.
In questo caso si parlerà di uno dei casi più discussi sul mondo della musica italiana:
Immetteremo anche stavolta delle puntate consecutive che ci parleranno della biografia di questo cantautore scomodo.
Ricordando a noi stessi che
a volte forse proprio nella difformità dalla massa, nella ricercatezza e in un nuovo approccio al proprio mondo professionale,
si può trovare un modo per resistere alla dilagante omologazione di cui la nostra società era vittima prima, oggi ancor di più.
Pensiamo che sia un messaggio che si possa adattare benissimo anche a noi che ci occupiamo di attività sportiva.
Costa certamente maggiore fatica andare a cercare situazioni poco comuni e altrettanto poco omologate, ma crediamo che la sperimentazione costituisca sempre un valore aggiunto anche rispetto ai nostri percorsi.
L’esempio di Luigi Tenco ce lo dimostra in maniera inequivocabile.
Parlando della pallacanestro di area FIBA si possano individuare alcuni turning points, ovvero alcuni cambiamenti regolamentari che hanno notevolmente cambiato il GIOCO.
La conseguenza è che ne sono state modificati gli approcci tecnici e tattici delle varie squadre e giocatori, nonché le strategie nella costruzione delle squadre.
Vediamo…
…quali sono, a mio avviso, quelli più determinanti.
Le modifiche nel tempo
1984 introduzione del tiro da 3 punti;
2004 il passaggio per i campionati FIBA dalla regola dei 30 secondi a quella dei 24 secondi.
Infatti, mentre in NBA, dopo un primo periodo in cui non vi erano limiti di tempo per concludere un’azione di attacco, nella stagione 1954/55 si decise immediatamente per i 24 secondi.
Nei paesi Europei, ma più in generale in quelli di area FIBA, ci fu prima il limite dei 30 secondi per poi adeguarsi alla regola NBA;
2010 arretramento linea dei tre punti alla distanza di 6,75 mt e modifica delle dimensioni dell’area dei 3 secondi;
2014 reset del cronometro a 14 secondi dopo un rimbalzo offensivo;
2018 l’introduzione del concetto “passo zero”
ovvero la possibilità di compiere, in determinate circostanze, un passo senza mettere la palla a terra che non rientri nel conto per il fischio della violazione di passi.
Tralasciando per ora, ne parleremo magari nei prossimi articoli, i significativi effetti degli altri cambiamenti regolamentari (alla lista precedente aggiungerei anche l’introduzione dello “SMILE”).
Le conseguenze del cambiamento del limite di tempo
In queste righe vorrei sottolineare come il cambiamento del limite di tempo per l’azione offensiva abbia influenzato a tal punto la pallacanestro “moderna” da pensare ad un vero e proprio spartiacque!
Le conseguenze sono state diverse e di grande impatto.
Parto proprio da quest’ultimo aspetto per condividere con voi alcune mie riflessioni.
La mia passione per questo sport è nata ben prima del 2004, quando le squadre erano composte da un quintetto base ben definito ed una panchina in cui era facile identificare il sesto uomo.
Quest’ultimo poteva tranquillamente far parte dello starting five, ma uscendo dal “pino” aveva un impatto sulla partita ancora maggiore tale da cambiarla.
Il resto dei panchinari (il roster era di 10 giocatori) era soprattuto giocatori di ruolo (Role Player) con compiti ben specifici, spesso con mansioni chiaramente difensive, con l’obiettivo di far rifiatare il titolare e di supporto anche morale per i primi cinque.
In seguito l’evoluzione della pallacanestro ha influenzato la costruzione del roster.
Con la riduzione di ben 6 secondi per concludere un attacco, si è visto notevolmente velocizzare il gioco con una diminuzione dei tempi di esecuzione sia fisici che mentali, tale da richiedere sforzi più intensi con conseguenti riposi brevi ma più frequenti.
Ecco la necessità di avere 12 giocatori, ma soprattutto aumentare le cosiddette rotazioni e avere un maggior apporto dai giocatori definiti rincalzi.
Nasce anche una vera e propria nuova definizione, quella di “SECOND UNIT”, cioè quintetti che iniziano la partita subentrando, ma che hanno la possibilità di giocare diversi minuti e quindi essere determinanti.
Ovviamente parte tutto da un concetto di tempo ridotto, ma non è solo una questione fisica:
non invadendo competenze altrui, non credo di essere smentito dicendo che i lavori di endurance in pres-season sono stati sempre di più sostituiti da lavori più intensi e anaerobici e da una maggiore attenzione allo sviluppo della resistenza veloce.
Infatti essendo uno sport di situazioni, l’aspetto tecnico ha risentito in maniera importante di questo cambiamento.
Analizziamo più nel dettaglio alcuni effetti
COSTRUZIONE GIOCATORI
In giro per i campi europei, a tutti i livelli, si vedono sempre più dei veri atleti.
Giocatori che potrebbero competere in qualsiasi disciplina di atletica leggera per le loro capacità anche purtroppo a scapito di una tecnica e una conoscenza dei fondamentali non precisa.
Questo è il vero obiettivo dei nostri settori giovanili, ovvero formare giocatori che sappiano abbinare a doti fisiche e atletiche di primo livello una tecnica altrettanto eccellente.
Come?
Prima insegnando in maniera precisa il gesto, aumentando solo in seguito la velocità di esecuzione e di pensiero!
E’ fondamentale avere una tecnica che ci permetta di avere un rilascio della palla efficace ed efficiente, con la palla che esce dalle mani con la giusta rotazione e parabola, con la corretta coordinazione piedi, gambe, braccia e mani.
Ciò è possibile con ripetizioni e una metodologia di allenamento che gli allenatori ben conoscono.
E’ necessario, però, che, una volta acquisita la tecnica, essa venga eseguita in tempi rapidissimi.
Quanto tempo ha il giocatore per eseguire un tiro prima di essere ostacolato?
E quanto per mettere i piedi “a posto”?
Quanti tiri sono effettivamente liberi o senza la pressione del difensore?
Quanto tempo ha per decidere il tipo di tiro da effettuare in relazione alla situazione di gioco?
Pochissimo, sicuramente molto meno di quanto ne aveva con i 30 secondi a disposizione per concludere l’azione d’attacco.
Sicuramente ha meno libertà di movimento dovendo affrontare difese più atletiche che riempiono gli spazi molto più velocemente. (Basti pensare ai “CLOSE OUT”).
GIOCHI OFFENSIVI
Prima della variazione regolamentare era norma sviluppare giochi d’attacco nei cui primi secondi c’era soprattutto un movimento di palla non sempre accompagnato da quello dei giocatori, o comunque non tale da creare un vantaggio immediato da poter sfruttare andando a canestro o concludendo.
Il vero pericolo per le difese infatti arrivava negli ultimi secondi dell’azione
Con i 24 secondi c’è stato uno sviluppo di set offensivi che dai primissimi istanti dell’azione permettono di mettere sotto pressione la difesa (concretizzare i vantaggi).
Alcuni consentono di raggiungere una conclusione dopo un solo passaggio e un movimento di un solo giocatore (si vedono sempre più isolamenti), altri hanno obiettivi chiari ed immediati che coinvolgono non tutti gli attaccanti (pensiamo a come nascono diversi pick&roll centrali).
Così come, (per necessità o per “pigrizia” di noi allenatori?), non è inusuale avere diverse chiamate dello stesso gioco a secondo del giocatore che vogliamo coinvolgere limitando, così, al minimo il tempo di esecuzione, ma anche la capacità di scelta dei nostri atleti.
Scelte che potrebbero rallentare l’esecuzione del gioco, con la conseguenza in questo caso, personale considerazione, di un impoverimento della qualità dell’attacco e del giocatore stesso.
Con un attacco pericoloso già nei primi secondi, con una ricerca sempre maggiore di attaccare in contropiede, attraverso anche transizioni offensive sempre più efficaci, è fondamentale avere giocatori in grado di passare da una fase all’altra immediatamente.
Da qui l’attenzione per le transizioni difensive e per costruire una mentalità difensiva che non sia passiva, ma anzi permetta di aggredire l’attacco nei primissimi metri del campo (con difese tutto campo, raddoppi, blitz sulla palla…)
In particolare le qualità atletiche di ormai tutti i giocatori, indipendentemente dai ruoli, e i meno secondi a disposizione dell’attacco, permettono di utilizzare cambi difensivi anche tra diversi ruoli.
Molto efficaci per spezzare il flusso in attacco e costringerlo a soluzioni rapide e meno efficaci, condizionato anche dalla SHOT CLOCK VIOLATION.
Le cosiddette SPECIAL PLAYS
Per le scelte difensive dette in precedenze, ma anche per gli ulteriori cambiamenti regolamentari (pensiamo il reset ai 14 secondi), non possono mancare nel playbook delle varie squadre quelle situazioni a gioco rotto o quelle rimesse, sia laterali che da fondo, per la ricerca di una conclusione veloce.
Ciò ha permesso una notevole specializzazione per queste chiamate “speciali”.
Conslusione
Il basket per sua natura e per come è stato ideato, è sempre incline ai cambiamenti, avvicinandosi a quelle che sono le richieste di modernità.
Si può tranquillamente affermare che sia uno sport “progressista”.
Così come lo devono essere tutti i suoi attori protagonisti, pronti ad adeguare la propria metodologia di lavoro, come abbiamo visto, sia dal punto di vista atletico che tecnico (non tralasciando il lavoro degli arbitri, a cui è richiesto di adattarsi ad un gioco più veloce e con più contatti).
In particolare con l’introduzione dei 24 secondi, il gioco ne ha sicuramente guadagnato in spettacolarità.
Sicuramente risulta essere più moderno e fruibile per un pubblico sempre più alla ricerca della giocata spettacolare e poco amante dei tempi morti.
Uno dei più classici oggetti che fanno parte della vita di un allenatore e che lo accompagna non solo la domenica, è il taccuino.
Sul taccuino l’allenatore ci scrive DI TUTTO.
Non si può fidare della sua sola memoria, e allora il taccuino serve a raccogliere ogni tipo di informazione che gli servirà a definire meglio il suo lavoro quotidiano e i suoi obiettivi.
Su quei taccuini si sono…
…vinte più partite di molte faticose sedute di allenamento e in quelle pagine non ci sono soltanto schemi ed esercizi.
Ci sono anche frasi e annotazioni che aiutano il coach a focalizzare meglio i suoi obiettivi.
Gli sbagli
Nei lunghi decenni in cui ho avuto la fortuna di allenare, trascrivevo ogni anno alla prima pagina di ogni nuovo taccuino la seguente frase, mutuata da un sillogismo aristotelico:
Questo monito serviva a ricordarmi, ogni giorno della mia carriera, che un allenatore è, prima di tutto, quello che sbaglierà più di tutti.
La ragione di questo è molto semplice.
Il basket è lo sport in cui per eccellenza un allenatore opera delle scelte continuativamente:
mentre qui possiamo, sì e no, limitarci a dare dei piccoli input, soggettivi e limitati alla sola esperienza di chi scrive.
Le gerarchie
La dinamica insita nelle scelte di chi far giocare prima, chi dopo, e chi solo se scende la Madonna, la definizione di chi giocherà i minuti decisivi, sono decisioni connesse ad un altro sacramento non scritto che vige nello sport in generale e in particolare nel basket:
la presenza di gerarchie indispensabili.
Ogni squadra ha la sua intrinseca chimica dei fattori interni, nella quale si può intravedere chiaramente un mix tra giocatori di esperienza, giocatori di media affidabilità, la presenza di una o più star, e giovani.
Questo mix definisce le dinamiche di una squadra e la àncora ad un principio gerarchico che è necessario conoscere, definire e condividere.
Qui pure si aprirebbe un capitolo che si trova a metà strada tra la chimica e le dinamiche di gruppo.
La chiarezza
È altamente raccomandabile che l’allenatore chiarisca preliminarmente alla squadra il criterio gerarchico da lui individuato per risolvere immediatamente la prima e più importante minaccia a cui il gruppo è sottoposto:
Ciascun giocatore deve sapere esattamente il suo peso all’interno della squadra: “l’accettazione di quel ruolo (non in senso tecnico ma come rilevanza) definirà il grado di compattezza di tutto l’assieme”.
Se sono un giocatore importante devo sapere che la squadra, l’allenatore e i compagni, si aspettano da me:
che giochi un certo minutaggio
che mi assuma determinate responsabilità
che porti sulle mie spalle un certo peso sul buon andamento della partita
e che sia pronto a farmi pienamente carico di tutto questo.
Se sono un giocatore giovane, arrivato per fare esperienza, devo sapere:
di non aspettarmi grandi minutaggi
che dovrò faticare per conquistare la fiducia di tutti
che devo aiutare gli altri ad allenarsi bene
tutto quello che verrà di più sarà guadagnato.
Il motivo della gerarchia
Dentro queste gerarchie si suddividono proporzionalmente anche le percentuali di merito/demerito che vanno redistribuite di pari passo con i successi o gli insuccessi della squadra.
La pallacanestro da questo punto di vista raramente ha commesso errori nell’attribuzione esatta delle responsabilità, nel fermo convincimento che è poi tutta la squadra a far fronte comune davanti ai successi o agli insuccessi.
La definizione delle gerarchie aiuta l’allenatore anche a compiere le scelte migliori nei famosi frangenti decisivi delle partite.
Se devo scegliere a chi affidare la conclusione che mi farà andare in paradiso o all’inferno, credo sia difficile che quella conclusione possa metterla nelle mani di un giovane con poca esperienza:
Questo è quello che capita nella stragrande maggioranza delle squadre.
L’eccezione che conferma la regola
Poi un giorno, un allenatore di Caserta che allena la squadra della sua città, arriva a giocarsi una finale scudetto in trasferta a Milano, e sul time out della quinta e decisiva partita, a meno di due minuti dal termine della gara che avrebbe assegnato l’unico scudetto della storia ad una squadra del Sud, si avvicina non al giocatore esperto, ma ad un ragazzo poco più che ventenne e gli chiede:
Ti dà credibilità e ti fa diventare un punto di riferimento per i tuoi allievi e ciò che dici, assume per loro un significato di “verità”:
se ne accorgono subito e vedono in te la serietà e ti seguono.
L’autorevolezza diventa progressivamente…
…sicurezza e rafforza la tua personalità che, con il passare del tempo, diventa coerenza, convinzione e capacità di svolgere bene il tuo ruolo all’interno del gruppo.
L’autorevolezza non è autoritarismo, non è “potere”, l’autorevolezza affascina, coinvolge ed emoziona.
Emozionali!
La seconda qualità è la partecipazione.
La tua deve essere una presenza attiva, animata dalla voglia di fare, di fare sempre meglio, di dare e di arricchire.
Questa voglia si misura con il desiderio di entrare in palestra, nel campo di gioco, in piscina, con entusiasmo e con la voglia di trasmettere e di coinvolgere: non deve essere una “routine”!
Guardali negli occhi, ti diranno subito di quello che hanno bisogno.
Coinvolgili!
La tua partecipazione è condizionata dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire o di far percepire qualsiasi esercizio o gioco in modo:
accattivante
interessante
curioso
in una versione sempre nuova,
perché nulla rimane immutato e tu devi coglierne le novità.
La tua partecipazione deve essere anche affettiva e deve esprimere la voglia di trasmettere ciò che sai e che hai raggiunto in anni di studi, di ricerche, di confronti, di approfondimenti e di aggiornamenti.
Il tuo deve essere un “sapere” che si coniuga con la passione e con il piacere di trasmetterlo agli altri.
Il “piacere di insegnare”, nessun lavoro, nessuna professione, senza il “gusto” di compierlo, può risultare gratificante, quindi efficace e proporzionato al gradimento dei tuoi allievi, che lo dimostreranno stando attenti, coinvolti e appassionati a ciò che trasmetti.
La terza qualità è il ruolo, il tuo ruolo.
Ogni ruolo ha una sua liturgia che deve essere mantenuta.
Non ti è concesso di diventare amico dei tuoi allievi.
Il tuo ruolo è sacro, non è una missione e la sacralità del tuo ruolo è fondata su un sapere razionale, ha un sapore fascinoso, misterioso, perché il mistero rimane dentro il pensiero umano.
Tu non sei il padre dei tuoi allievi, non sei il loro amico, non sei lo psicologo che li deve accompagnare nel cammino della fanciullezza.
Sei un uomo o una donna con l’incarico di fare il direttore d’orchesta dove ognuno degli orchestrali suona il proprio strumento (chi bene e chi male, ma tutti suonano) e tu hai il dovere di accompagnarli e di farli “crescere”.
Affascinali!
La quarta qualità è “falli star bene”.
La palestra, il campo di gioco, la piscina devono essere un’oasi di pace, fuori può regnare il caos, ma nella tua palestra e nel tuo campo di gioco devono sentirsi al sicuro.
Falli stare bene i tuoi allievi, la palestra, il campo di gioco, la piscina sono un banco di prova per la vita futura e tu puoi solo aiutarli ad essere pronti per affrontarla.
Fai capire loro che eccellere costa, imprimi nella loro mente che se vogliono veramente ottenere qualcosa di importante, devono impegnarsi e sacrificarsi.
Accompagnali!
Conclusioni
“Tu devi essere un Insegnante, un Istruttore, un Allenatore, un Educatore “in gamba”, devi lasciare in eredità ai tuoi allievi la gioia di giocare, di divertirsi e la voglia di migliorare!
Devi saper “leggere” nei loro occhi ciò che desiderano e se sarai in grado, fai diventare lo sport che praticano un’avventura e non una marcia forzata per eccellere.
I vari insegnamenti devono comunicare maggiormente tra di loro e non restare chiuse nel loro compartimento stagno.
Il tecnicismo, la specializzazione, il pensiero convergente, il ripetere meccanicamente cose già apprese, non ci permette di seguire un percorso diverso.
Lo sviluppo del pensiero divergente arricchisce le nostre competenze comunicative e la nostra efficacia espressiva
Spesso il pensiero divergente è usato come sinonimo di creatività ma la capacità di creare è qualcosa di più complesso in quanto in essa intervengono fattori socio-culturali ed altri aspetti della personalità non solo cognitivi ma anche affettivi ed emotivi.
E’ certo però che il pensiero divergente indica la giusta direzione da seguire per arrivare al nucleo centrale della creatività in quanto i suoi tratti caratteristici sono:
la fluidità
facilita lo spostamento di un’idea da un luogo all’altro e da una produzione all’altra;
la flessibilità
un pensiero elastico, capace di piegarsi, di adattarsi alle differenti situazioni;
l’originalità
che non dipende e non ha somiglianza con esempi, modelli ed idee precostituiti, convenzionali, ed ha quindi una sua novità, un suo carattere proprio;
l’elaborazione
l’insieme delle operazioni (l’associazione delle idee, l’astrazione, l’immaginazione costruttiva e riproduttiva, il giudizio, il ragionamento, ecc…), con le quali organizziamo e trasformiamo il materiale fornito dall’esperienza.
Il percorso specifico
I tratti tipici del pensiero divergente sono gli stessi della dimensione della creatività ecco perché per diversi autori il pensiero divergente indica il pensiero creativo.
Le nuove strade non escludono le vecchie, ma si possono unire con esse illuminando alcuni tratti del circuito cerebrale, rendendo così, il traffico più vario e veloce.
La creatività non è una capacità di pochi artisti, pittori, musicisti, inventori, scienziati, ma è una possibilità per tutti, ognuno è in grado di trovare nuove e diverse associazioni tra le cose ogni giorno.
La creatività è una dote innata che tutti posseggono ma che non in tutti si manifesta immediatamente ed istintivamente.
Aiuta molto educare i bambini fin da piccolissimi alla ricerca personale, alla flessibilità, alla liberazione della creatività, perché loro, in particolare dagli zero ai tre anni, hanno una mente assorbente, “superassorbente”.
Si è dovuto aspettare l’arrivo di Maria Montessori che ha creato una “casa dei bambini”, un luogo di rivelazione e di espressione del bambino mediante:
la creazione di un ambiente a lui proporzionato;
una disciplina attiva che lo abitui ad essere padrone di sé, a sapersi imporre il limite dell’interesse collettivo e la forma delle buone maniere materiali;
la consapevolezza che il bambino ha un’intensa vita psichica, inconscia e subconscia e che è tanto grande nella sua piccolezza, è capace di intenzione e di pensiero, di azioni pratiche e creative;
la sua mente è assorbente, ma non come la spugna che lascia passare l’acqua e non la trattiene.
La mente del bambino, invece, arriva ad assorbire ed a conservare molte e difficili cose:
il linguaggio
le abitudini
i sentimenti
per cui occorre saper utilizzare questa forza creativa e inconscia.
La curiosità del bambino è il vero motore dell’apprendimento e questa curiosità nasce dalla stimolazione, dalla motivazione e non dall’ esigenza di riempire la sua mente con informazioni che spesso non capisce e che fa fatica a ricordare.
Conclusione
La scuola è impegnata in una costante, continua, inarrestabile, ricerca per individuare le formule organizzative e gli interventi educativi più efficaci affinché i bambini possano svincolarsi dalla dipendenza delle cose già fatte, già pronte, ed aprirsi a nuove possibilità capaci di evolvere in un percorso che è sempre dinamico.
Conoscere significa stabilire nessi, collegamenti, connessioni, essere capaci di fare sintesi in un mare di informazioni e questa capacità può essere insegnata solo a scuola e bisogna farlo il prima possibile.
I bambini devono essere educati fin dal momento della nascita, nei primi anni di vita, per alcuni neuro scienziati entro i tre anni si formano le sue modalità cognitive ed emotive che gli permetteranno di conoscere il mondo e di relazionarsi agli altri.
la velocità di esecuzione del gesto motorio (accelerazione)
a cui va aggiunta l’analisi degli angoli articolari del gesto stesso e lo spostamento ottenuto.
L’identificazione del massimale è un preciso riferimento della quantità di forza esprimibile in un determinato movimento monoarticolare, multiarticolare o di un determinato gruppo muscolare.
Allenare la forza
L’allenamento della forza è importante per migliorare le prestazioni, per raggiungere equilibrio nelle riabilitazioni e riatletizzazioni ed è in grado di contrastare efficacemente la perdita di massa muscolare producendo risposte anaboliche di adattamento non ottenibili con gli allenamenti aerobici .
Stimola, inoltre, la capacità neuro-motoria specifica di reclutamento delle fibre muscolari e questo consente sia un miglioramento dell’output muscolare di forza, sia d’intervenire positivamente nel rallentare i fenomeni di denervazione.
L’inattività con il passare degli anni aumenta il catabolismo proteico, riduce la capacità di reclutamento muscolare e facilita i fenomeni di denervazione conducendo i soggetti a un più rapido declino delle abilità motorie.
Gli allenamenti della forza negli anziani e nei soggetti affetti da sindrome metabolica possono essere eseguiti in totale sicurezza.
Se ben programmati e attraverso stimoli di appropriata intensità si possono produrre guadagni di massa muscolare e di forza comparabili con quelli ottenibili negli individui più giovani.
La valutazione
La valutazione della forza è indispensiabile al fine di poter eseguire un corretto approccio dell’allenamento basato su principi scientifici.
Una corretta valutazione dei livelli di forza permetterà di elaborare un programma terapeutico e motorio personalizzato che consentirà di migliorare:
di rallentare, entro certi limiti, alcuni processi degenerativi legati all’invecchiamento e alle patologie
La valutazione della forza clinico-funzionale
La valutazione della forza clininico – funzionale è di fondamentale importanza per identificare l’attitudine di un soggetto e per il monitoraggio degli adattamenti fisiologici all’esercizio fisico mettendo in evidenza le aree che necessitano di intervento e le modalità più idonee per attuarlo permette inoltre di impostare i giusti carichi di lavoro .
La coordinazione è importante soprattutto nella valutazione della forza dinamica massimale ed essa sarà sempre legata ad uno specifico movimento perché in parte la forza è un’abilità.
Per questo quando si valuta un movimento va sempre presa in considerazione sia la parte quantitativa (il valore numerico estratto dalla prova) che quella qualitativa (la correttezza del gesto).
Se si elimina dalla valutazione l’attenzione alla correttezza tecnica del gesto si rischia di rendere la prova non valida e inoltre si espone la persona ad infortuni anche gravi.
Cos’è indispensabile per i test (obiettivo – soggetto – test)
una conoscenza approfondita del gesto ed esperienza nell’applicazione del test
una corretta valutazione della relazione
una capacità di osservazione delle fasi dell’esecuzione
una corretta interpretazione dei dati
un corretto incrocio dei dati con gli altri test
I test devono analizzare le condizioni di partenza e in itinere.
Per avere efficacia devono essere:
ATTENDIBILI
riprodurre ciò che misurano,
VALIDI
rispettare il significato predittivo scopo
OBIETTIVI
operatori diversi risultati analoghi
RIPRODUCIBILI
misurare stessa cosa e condizione
SPECIFICI
soggetto e tipo attività
TECNICI
mantenere costanti le variabili
Questo è il motivo perchè devono essere effettuati da professionisti che hanno esperienza nell’analisi tecnica del gesto proposto, nella capacità di osservazione delle dinamiche di esecuzione del gesto nonche’ di eventuali compensazioni che potrebbero inficiare il risultato finale.
Le regole per una buona valutazione sono semplici:
Sapere cosa valutare
Scegliere il metodo (test) giusto per la valutazione
Scegliere il mezzo (esercizio) giusto per la valutazione
archiviare i risultati
riassumerli sotto forma di grafici per avere una visione d’insieme dei progressi ottenuti
La forza massima, si esprime quando si muove un carico, il più alto possibile, senza limitazioni di tempo e senza la possibilità di modularne la velocità di spostamento.
Quella esplosiva, anche se in modo improprio, si può definire come la capacità del sistema neuromuscolare di esprimere elevati gradienti di forza nel minor tempo possibile, in modo da imprimere al carico da spostare la maggior velocità possibile.
L‘ esplosivo-elastica, si esprime quando si vuole muovere un carico il più velocemente possibile e il movimento inizia con una fase eccentrica alla quale segue immediatamente quella concentrica
La forza esplosivo-elastico-riflessa, come quella elastica, si esprime in un doppio ciclo stiramento-accorciamento, ma in questo caso di ampiezza limitata e di velocità particolarmente elevata.
La resistenza alla forza veloce non è altro che la capacità di esprimere elevati sviluppi di forza esplosiva ripetuti per tempo relativamente lungo
La resistenza muscolare è la capacità del muscolo di produrre bassi sviluppi di forza prolungati per lungo tempo.
La valutazione può essere in condizione di:
Forza espressa in situazione statica
Forza espressa in situazione dinamica – con o senza carico
I metodi di valutazione della forza:
manuali TMM (test muscolare manuale)
pratici in palestra a corpo libero o con uso di pesi liberi e macchine
strumentali basati sui dinamometri , cella di carico, accelerometro, sistemi optoelettronici, videografici, handgrip, pedane
Il presupposto di ogni controllo efficace dell’allenamento è quello di disporre di valori affidabili di test (Bartonietz 1992) :
Valutazione funzionale + Pianificazione dell’allenamento = CONTROLLO DELL’ALLENAMENTO
Chi bazzica nel mondo sportivo forse si sarà imbattuto nell’espressione dual career, ma al grande pubblico (e perfino ai diretti interessati) è perlopiù sconosciuta.
Letteralmente si traduce con “doppia carriera” e si riferisce a tutti coloro che percorrono contemporaneamente due strade.
Ad esempio…
…chi:
si occupa di tenere in ordine la casa ma ha anche un lavoro;
Nell’ambiente sportivo la definizione ha preso particolarmente piede poiché molto spesso gli atleti sono costretti a condurre, insieme alla carriera agonistica, quella scolastica prima e lavorativa poi.
Destreggiarsi tra due vite, quella sportiva e quella scolastica/lavorativa, non è assolutamente facile, richiede dedizione completa, impegno e molti sacrifici.
La routine di un atleta con dual career è estenuante:
la sveglia al mattino suona alle 5:00
quando il sole non è ancora sorto, per recarsi in società per il primo allenamento della giornata.
Tra le 8:00 e le 9:00 il ragazzo si farà una doccia rapidissima
e poi di corsa a scuola o al lavoro dove, anziché riposarsi e ricaricare le energie, dovrà mantenere alto il livello di attenzione e continuare ad impegnarsi mentalmente e/o fisicamente.
Dopo un pranzo veloce (al quale invece si dovrebbe prestare molta attenzione per fornire al corpo il giusto apporto di nutrienti) correrà verso un nuovo allenamento pomeridiano, spesso più intenso del precedente.
A sera il nostro atleta sarà esausto, eppure dovrà trovare il tempo e le energie per svolgere i compiti scolastici e frequentare famigliari e amici. Può accadere che sia troppo stanco e decidere di sacrificare il tempo con i compagni in favore di una bella dormita ma, se da un lato questo giova al suo corpo, dall’altro porta ad un impoverimento della sfera sociale e un accumulo di stress.
Condurre una simile vita è molto faticoso.
Su questo argomento sono stati svolti vari studi che hanno portato alla luce numerose motivazioni.
La prima risulta essere il lavoro, visto come la necessità di avere una fonte di sostentamento alta rispetto allo sport.
Questa esigenza è così sentita per due ragioni:
da un lato, soprattutto per le discipline dilettantistiche, le vittorie da sole non bastano al sostentamento di una famiglia,
dall’altro c’è l’incertezza legata al raggiungimento o meno dello status di atleta d’elite
(al quale è legata un’entrata economica di peso molto variabile in base alla disciplina praticata).
L’atleta è anche costretto a tener conto della durata della sua carriera sportiva.
Quando questa sarà finita, termineranno pure i premi economici e dovrà trovarsi un impiego che difficilmente gli verrà concesso se non avrà portato a termine gli studi.
Assicurarsi un futuro al di fuori dello sport non è l’unica motivazione emersa dalle ricerche:
queste hanno evidenziato che molti atleti preferiscono essere coinvolti in entrambe le carriere perché ciò fornisce loro un maggiore livello di stimolazione cognitiva, soddisfazione personale e fiducia in se stessi.
Cosa dicono le ricerche
Gli studiosi hanno evidenziato che gli sportivi impegnati in dual career presentano un maggiore senso di unità di identità, un più alto livello di benessere psico-fisico e, quando la loro carriera giunge al termine, una migliore transizione dal mondo sportivo a quello lavorativo.
Da quanto detto appare evidente come sia importante favorire la doppia carriera, eppure nella maggior parte dei casi, soprattutto in Italia, questa viene scoraggiata.
Per i giovani, queste sono le figure principali di riferimento e pertanto si lasciano influenzare dalle loro opinioni.
In particolare, tra gli allenatori è frequente l’idea che la scuola non sia importante, ma anzi una perdita di tempo che sottrae ore agli allenamenti.
Più o meno lo stesso è il pensiero dei docenti tra i quali è ancora molto vivo lo stereotipo dell’ “atleta stupido”, visto cioè come alunno meno cognitivamente dotato semplicemente perché si dedica con fervore all’attività fisica.
Conseguenze psicologiche
Queste idee sono quanto mai dannose per l’autostima e il senso di autoefficacia dei ragazzi e possono favorire sentimenti di inadeguatezza verso la scuola o lo sport, disistima di sé e depressione al punto tale da abbandonare uno dei due percorsi.
L’allontanamento da una carriera non rappresenta semplicemente la morte di un sogno e la perdita di una possibilità, ma ha conseguenze anche sulla psiche dei ragazzi.
La rinuncia a un percorso, infatti, fa nascere insicurezze che portano a una diminuzione dell’autostima e a un maggiore senso di incapacità.
Naturalmente questa situazione genera malessere che porta a un vero e proprio abbassamento della qualità della vita del ragazzo.
Nel caso della rinuncia allo studio, a carriera sportiva terminata, senza una laurea ed esperienze lavorative, lo sportivo avrà serie difficoltà a trovare un lavoro stabile.
Questo aumenterà le incertezze, lo stress e le ansie relative al futuro, fino ad arrivare a un’auto-svalutazione di sé che porterà a una diminuzione dell’autostima che potrà arrivare a veri e propri sintomi psicopatologici.
Nel caso dell’abbandono dell’attività sportiva,
il ragazzo vedrà distruggersi il sogno di vestire la maglia nazionale, si chiederà per sempre se:
avrebbe potuto farcela
si sentirà monco di un’esperienza di vita che aveva desiderato con fervore e per la quale stava lottando
si vedrà come un buono a nulla per non essere riuscito a portare avanti la dual career.
proverà un senso d’ inferiorità verso chi ce l’ha fatta
Dare agli atleti la possibilità di portare avanti la carriera sportiva, unita all’istruzione e/o al lavoro, significa dar loro la possibilità di sviluppare una personalità sana affinché possano svolgere il proprio ruolo nella società, garantirsi un reddito soddisfacente, arrivare alla gratificazione affettiva e sociale.
Conclusioni
Per raggiungere questo obiettivo bisogna puntare su ciò che nelle ricerche gli studiosi chiamano “facilitatori”
Quegli attori che, gravitando intorno allo sportivo, lo spronano a portare avanti entrambe le carriere.
Paradossalmente è emerso che si tratta degli stessi personaggi che costituivano le barriere: famiglia, insegnanti e allenatori.
Quando questi individui hanno pareri discordanti tra loro e sono contrari ad una delle due carriere, l’atleta ne è influenzato negativamente e può demoralizzarsi fino al ritiro da una delle due;
al contrario, quando gli adulti di riferimento lavorano in armonia, senza pregiudizi gli uni verso gli altri, allora il giovane trae beneficio dal clima sereno e aperto.
Per fare in modo che le principali barriere alladual career si trasformino in facilitatori è necessaria
La creatività, per il pediatra e psicoanalista britannico Donald Woods Winnicott, è “energia fondamentale e di base che guida lo sviluppo di una persona”.
E’ una potenzialità di tutti e quindi una meta per tutti.
Ognuno ha un potenziale creativo che può essere risvegliato con gli stimoli adeguati e nell’ambiente giusto.
Albert Einstein affermava che per arrivare alla soluzione di un problema si deve cambiare il modo di pensarlo.
Relazione stretta tra corpo, movimento e creatività.
Chi crea, chi si muove, si mette in azione e questo lo fa stare in contatto con il suo mondo interiore procurandogli gioia e consapevolezza.
E’ molto difficile dire con precisione che cos’è la creatività ed in quale parte del cervello risiede.
Ogni studioso, in base all’indirizzo scientifico seguito, dà un’interpretazione diversa, per cui la ricerca è ancora aperta.
Un punto su cui i teorici sono però d’accordo è che la creatività è una delle qualità più importanti dell’essere umano.
E’ lo slancio vitale che ci permette di esprimerci in mille modi diversi, senza di essa, la persona non potrebbe esplorare il mondo nelle pienezza delle proprie possibilità, ma sarebbe dominato:
che porterebbero inevitabilmente alla morte della soggettività.
Un individuo creativo è colui il quale dà un’impronta personale alla propria vita, inserito nel mondo lo capisce, si adatta ad esso ed è in grado di modificarlo.
Ognuno può lasciare la propria traccia perché tutti siamo persone creative, ogni soggetto è portatore di novità:
Nello specifico
La creatività è un’attività molto complessa che è determinata dall’attivazione simultanea di tante aree, può partire:
da un pensiero
da uno stimolo esterno
da una sensazione
da un’intuizione
da un movimento
da un’emozione
che non possono mai essere completamente separati.
La sua unicità sta proprio nella pluralità dei circuiti nervosi intimamente connessi.
Le aree cerebrali coinvolte sono numerose con una maggiore prevalenza di quelle dell’emisfero destro che è pieno di cellule nervose emotive, intuitive e con talento artistico che vivono per strada suonando, dipingendo, scolpendo ed inventando giorno per giorno un modo di vivere.
L’emisfero sinistro ricco di neuroni bravi in matematica, che parlano e ragionano logicamente, calcolando tutto, ha un preciso ruolo nei processi creativi.
Il corpo calloso è il ponte di collegamento tra i due emisferi che quindi, sostanzialmente, non sono separati.
Conclusione
Immaginare due cervelli divisi ognuno con una sua precisa funzione è quindi sbagliato perché attraverso la tangenziale del corpo calloso a doppio senso e ad otto corsie viaggiano tutte le informazioni possibili.
Lo scambio di notizie, i collegamenti, con i nuclei diencefalici e con il sistema limbico sono talmente continui e frequenti che alla fine non si ha più una reale separazione tra il razionale e l’artistico, tra l’emozione e il pensiero, tra i movimenti divergenti e convergenti.
I due emisferi in realtà fanno parte di un unico grande raccordo.
la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male …… anche nello sport!
Come gestire il gap generazionale coi nostri giovani ed aiutarli a crescere al meglio?
Spesso i giovani d’oggi smarriscono la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male a causa della moltitudine di stimoli esterni.
A 14-15-16 anni arrivano già i primi segnali di indifferenza emotiva, per cui sembra che un ragazzo non riesca più a provare emozioni di fronte a gesti o a fatti che avvengono.
A quest’età, a molti interessa solo ciò che procura: …
…una gioia istantanea
l’adesso e non il futuro
l’essere bugiardi per ottenere qualcosa
i sentimenti positivi sembrano essere scomparsi e commettere azioni sbagliate appare per loro come una cosa normale e giusta.
Nell’adolescenza, età molto difficile, avviene un’importante crescita emotiva e gli “input” esterni sono più affascinanti dei moniti e degli insegnamenti degli adulti.
I giovani d’oggi si sentono i padroni del mondo e cominciano a chiudersi in sé stessi.
A scuola spesso si comportano male con gl’insegnanti;
Il loro mondo è troppo spesso occupato da “cose materiali”:
il telefonino
gli amici
il fare il contrario del normale
perché è giusto così, il loro “mondo virtuale”
che di certo non sono dimostrazione dell’amore genitoriale, dell’affetto e della stima degl’insegnanti e degli allenatori, che dovrebbe essere la base di ogni processo educativo e che possono sembrare la soluzione al problema.
Come dimenticare il cambiamento nel modo di vestire!
Si dà sempre più importanza all’aspetto esteriore e alle marche all’ultimo grido, mentre prima si badava soprattutto alla personalità dell’individuo.
Agli allenamenti spesso ci si presenta con:
le scarpe slacciate la bandana
la fascetta
i “fantasmini”
una volta si arrivava sempre in orario, ben vestiti e con i calzettoni lunghi fino quasi al ginocchio.
Oltre alle relazioni profondamente rivisitate, anche i luoghi hanno avuto un cambiamento radicale:
ad esempio prima i parchi e gli oratori erano i luoghi di ritrovo per i giovani
Un altro fattore fondamentale, non concesso ai giovani nel passato, è l’eccessiva libertà offerta da quei genitori, che non curanti dei rischi a cui i propri figli vanno incontro, rischiano di finire in vere e proprie tragedie.
Infine, negli ultimi anni si è diffusa a dismisura la moda dei “selfie”.
Bisogna,tuttavia, sottolineare che questo fenomeno non riguarda tutto il mondo adolescenziale:
Il loro mondo virtuale
Il “loro mondo virtuale” si trasforma in reale ……… e gli scherzi, le scampagnate con gli amici, le “suonate di campanelli e poi via di corsa, i “cori” e gli sfottò, che hanno reso le adolescenze passate indimenticabili, sembrano ormai aver perso il confronto!
I giovani d’oggi (non tutti, meno male!) si chiudono in un mondo tutto loro, governando il loro stato mentale e cancellando le relazioni con il mondo esterno.
In passato le amicizie venivano instaurate e consolidate con il puro contatto e dialogo, ora il contatto avviene attraverso uno schermo e influenza notevolmente i rapporti tra coetanei, provocando spesso amicizie virtuali, che si rivelano rischiose.
Pur non dimenticando che il “gap generazionale” è sempre esistito, che l’adolescenza di tutti noi è sempre stato un problema per gli adulti di ogni tempo, pare che oggi si sia dilatato a dismisura.
Con il passare del tempo è diminuita la corretta comunicazione che i giovani dovrebbe avere con i genitori, con gl’insegnanti e con gli allenatori, molti giovani non si prendono più le loro responsabilità e non sanno valutare la differenza tra il dare e l’avere,
per loro conta solo l’avere!
Conclusioni
Penso che un buon contributo al miglioramento della situazione potrebbe fornirlo la Scuola e……..tra tutte le materie che si studiano a scuola non ci sono quelle che dovrebbe essere ritenute importanti e fondamentali:
Sono convinto che in un futuro non lontano, si possa riuscire a capire l’importanza di ciò, perché i giovani d’oggi non sono e non possono essere delle “macchine”, ma hanno forti stimoli che bisogna imparare ad alimentare in modo positivo.
Nell’articolo precedente ho trattato quella parte del lavoro di noi allenatori che riguarda la diffusione e la condivisione dei giochi avversari, le varie modalità in cui avvengono, gli obiettivi che ci prefiggiamo di ottenere e la collocazione temporale all’interno di una settimana lavorativa.
In questo nuovo contributo vorrei porre l’attenzione, invece, sull’importanza che assumono le caratteristiche individuali dei giocatori avversari.
Individual skills / Stats
Buona parte, infatti, delle informazioni degli avversari che lo staff tecnico trasmette alla propria squadra, riguardano le cosiddette individual skills accompagnate dalle “stats”.
Le prime rappresentano non solo ciò che il giocatore “sa fare”:
quindi i suoi pregi e i suoi difetti dal punto di vista tecnico;
il suo ruolo tattico
“ma anche”:
ciò che egli rappresenta per la propria squadra;
se è un punto di riferimento in attacco o in difesa;
Ovviamente la visione delle partite è altrettanto importante come quando bisogna redigere il playbook della squadra avversaria ed è facilmente intuibile che, in questo caso, il numero delle partite visionate è di fondamentale importanza.
Poche potrebbero dare false indicazioni (fake news), mentre un numero adeguato ci permette di avere maggiore certezza nello scegliere cosa condividere con i propri atleti dei futuri avversari.
Spesso gioca un aspetto fondamentale la conoscenza diretta del giocatore e, se non è possibile riscontrarla all’interno dello staff, ecco che ritornano d’aiuto le telefonate fatte, magari, in passato con altri colleghi che ci permettono di aggiungere anche delle note caratteriali al profilo dell’avversario.
Le seconde, ovvero le statistiche, nel basket moderno acquistano anno dopo anno, stagione dopo stagione, sempre più rilevanza.
Esse sono, non solo di supporto al giudizio circa l’efficacia, ma, grazie ai dati numerosi ed approfonditi che siamo mi grado di ricavare dai vari siti specializzati, anche indicative circa le abitudini dei singoli giocatori.
Esempio
oggi di un avversario possiamo sapere, con un’elevata accuratezza:
quante volte attacca il ferro con la mano destra;
quante con la sinistra;
in che percentuale utilizza quel tipo di conclusione
se è in uscita dal lato destro piuttosto che sinistro
cosa fa dopo un blocco
cosa preferisce fare negli ultimi secondi dell’azione e così via!
Tutto merito della famosa arte di scoutizzare una partita.
Vi sono colleghi all’interno degli staff tecnici che si sono specializzati in questo compito.
Il report
Ritorniamo ora al materiale che si sceglie di condividere con la propria squadra.
Come per i giochi avversari, non c’è una regola valida per tutti e per tutte le situazioni.
Nell’organizzare le informazioni da trasmettere alla squadra parto da una quasi certezza:
la prima voce del report che i giocatori vanno a guardare sono le stats degli avversari, in particolare dei giocatori che immaginano di dover marcare!
Ed è questo il motivo per cui è fondamentale la scelta e la modalità dei “numeri” che si propongono.
Essi devono essere di supporto e non dare cattive indicazioni, meglio non fornirli se non siamo sicuri di ciò che evidenziamo!
Dobbiamo avere chiaro in mente il messaggio che vogliamo condividere e l’obiettivo che vogliamo raggiungere.
Inutile sottolineare le buone percentuali di un giocatore da tre punti
se i suoi tentativi non sono significativi
Al contrario, è un errore non mettere in guardia sulla pericolosità di un tiratore che in carriera ha avuto sempre alte percentuali
magari meno fino a quel punto della stagione e quindi riportare anche i dati delle altre annate oltre a quella attuale.
Il sapere quali sono le soluzioni più efficaci a seguito di un preciso movimento o di uno schema, hanno più valenza di una “fredda” media aritmetica.
Il tutto deve essere coerente con le indicazioni che diamo per presentare le caratteristiche di un giocatore avversario e con le immagini che nelle varie riunioni presentiamo alla squadra.
non credo sia un messaggio chiaro riportare clip in cui un giocatore mostra una skill che statisticamente non è un dato significativo.
Organizzazione del report
Le indicazioni scritte preferisco siano dei flash, molto sintetiche, in stile linguaggio sms, devono catturare l’attenzione di una generazione abituata a vedere video più che leggere.
Le clips devono essere mirate, di ogni singolo giocatore.
Devono:
mostrare le caratteristiche principali, legate alle statistiche;
più brevi possibile
giusto il tempo d’ individuare il giocatore e di capire in che contesto tecnico e tattico si sviluppano;
mostrare anche i punti deboli
che messaggio diamo alla squadra se mostriamo solo canestri di un avversario?!.
Influenza della categoria del campionato
In un campionato di medio livello troveremo giocatori con qualità e difetti ben riconoscibili su cui speculare e dove la conoscenza specifica di ogni avversario può veramente fare la differenza e indirizzare il risultato di una partita.
Diverso il discorso quando il livello sale.
In questo caso dovremo confrontarci con giocatori dal talento elevato con un bagaglio tecnico importante e completo, magari roster molto lunghi e con infinite possibilità.
Nel primo caso credo che il tempo da dedicare al trasferimento delle informazioni individuali debba coprire una fetta importante del lavoro di uno staff.
Credo sia importante coinvolgere i singoli giocatori informandoli il prima possibile dei propri diretti avversari, farlo nei primissimi giorni della settimana dedicati alla squadra avversaria, anche prima dei riferimenti agli schemi.
Nel secondo caso, invece, si parla di limitare la pericolosità di un avversario, magari necessita di un lavoro di squadra piuttosto che singolo, non si parlerà più di speculare sui difetti, ma bensì di accorgimenti tattici, di una difesa di squadra e quindi di collaborazioni.
É opportuno, quindi, informare e coinvolgere tutta la squadra, operare delle scelte di cui siano consapevoli tutti i giocatori dedicandovi del tempo sul campo importante.
Conclusione
In ogni caso, alla base di qualsiasi ragionamento e programmazione, non bisogna mai dimenticare che la pallacanestro è un Gioco di squadra, per il sottoscritto la più alta espressione.
Attraverso le parole di Alberto Cantone comprendiamo il gesto di un piccolo grande uomo che a suo modo ha cambiato la storia dei diritti umani. Il suo nome è Peter Norman e il suo gesto silenzioso sarà ricordato a lungo.
Quando smetteremo di parlare di sport femminile e inizieremo a riconoscere le donne al pari degli uomini anche nello sport, allora si potrà cambiare il tono della domanda.
Lo sport è per tutti ed è di tutti: maschi e femmine, ma è solo un miraggio in Italia!
Nel mondo dello sport italiano ci sono discipline considerate appannaggio esclusivo degli uomini o delle donne…
In questo Report il 38,5 % degli uomini pratica il calcio contro l’1,2 % delle donne, il 16,8 % delle donne pratica danza contro il 2 % degli uomini, il 4% degli uomini pratica il volley rispetto all’85% delle donne e così di seguito.
Un lavoro del Centro Studi di C.O.N.I. Servizi del 2017, relativo alle caratteristiche demografiche degli atleti e degli Operatori delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Sportive Associate, evidenzia elementi di fortissima differenziazione di genere:
le atlete donne erano il 28,2 % contro il 71,8 degli atleti maschi (su 4,7 milioni di tesserati complessivi);
tra gli Operatori Sportivi (Istruttori, Allenatori, Dirigenti), 4 su 5 erano di sesso maschile (80,2 % Allenatori, Istruttori, Direttori Sportivi, 81,8 % Ufficiali di Gara e Arbitri, 87,6 % Dirigenti Federali e 84,6 % Dirigenti Societari).
Questi sono i dati ufficiali del 2017, ma nel 2020 i risultati sono diversi, è aumentata la percentuale delle atlete donne nel calcio, nello sci, nel rugby, ecc., sono aumentate le donne “coach”, le donne “Dirigenti”, insomma è cresciuto il numero delle donne al timone del comando!
Ma non esiste ancora parità!
La storia dello sport della donna, infatti, non è stata ancora scritta in Italia in maniera compiuta.
Un po’ perché la storia dello sport, in generale, si è sempre occupata di questo fenomeno dal punto di vista maschile, ma anche perché la storia dello sport femminile è stata finora circoscritta, avendo considerato le vicende di qualche atleta illustre, o di qualche disciplina, o di qualche episodio eclatante, senza una visione d’insieme.
È anche mancato il materiale su cui indagare, perché la donna, solo di recente, ha avuto una propria storia, relegata però in quella del costume.
Infine non bisogna dimenticare il contesto in cui ha vissuto per secoli la donna nel nostro Paese, soggetta a pregiudizi di tipo culturale di difficile superamento, condizionata, come negli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dalle sue prerogative di madre e sposa, prerogative che la hanno relegata ad un ruolo secondario della vita civile.
Però all’estero la situazione è migliore, sia perché sono più avanzati gli studi di storia dello sport in generale, sia perché questo fenomeno è entrato nella cultura comune e nel modo di vita quotidiano.
Ora però anche in Italia qualcosa sta cambiando, la dimostrazione è che la bi-campionessa olimpica di ciclismo Antonella Bellutti si presenterà come sfidante di Giovanni Malagò alle prossime elezioni per la presidenza del CONI
Nel lavoro
Nel lavoro esiste la parità dei sessi?
Quando smetteremo di parlare di lavoro “al femminile” e inizieremo a riconoscere le donne al pari degli uomini anche nel lavoro, allora si potrà cambiare il tono della domanda.
Il lavoro è per tutti ed è di tutti: maschi e femmine, ma è solo un miraggio in Italia!
Le donne hanno il 25% in meno di diritti sul lavoro rispetto agli uomini, così afferma il nuovo rapporto “Women, business and the law 2019”, pubblicato dalla Banca Mondiale, nel quale si prendono in considerazione le decisioni economiche e legislative che i Paesi hanno intrapreso negli ultimi 10 anni per migliorare la situazione delle donne nel contesto lavorativo.
La media mondiale è intorno ai 74 punti: in pratica le donne ricevono un quarto in meno di diritti sul lavoro rispetto agli uomini.
Nel 2018 ci sono sei Paesi che hanno raggiunto il punteggio di 100 nel rapporto della Banca Mondiale:
Belgio
Danimarca
Francia
Lettonia
Lussemburgo
Svezia
Nel 2020 il numero dei Paesi che ha raggiunto il punteggio di 100 è aumentato specialmente nel nord Europa e nel nord America.
Dando uno sguardo in generale alla situazione, si può notare un progresso dal punto di vista del “gender equality” ma esistono diversi Paesi, soprattutto in Africa e Medio Oriente, che non raggiungono nemmeno la metà del punteggio massimo.
Secondo il rapporto, le donne iniziano la propria carriera lavorativa più tardi degli uomini e a 25 anni e la scelta del lavoro per loro è condizionata da tre fattori principali:
la sicurezza economica;
la possibilità di crescita;
l’equilibrio tra il lavoro e la vita privata.
Le politiche economiche di ogni Paese sono state analizzate attraverso alcuni indicatori che prendono in considerazione ogni fase della vita lavorativa della donna:
i vincoli sulla libertà di movimento (sia la possibilità di andare concretamente al lavoro, sia la capacità di viaggiare);
la valutazione delle leggi e degli strumenti che permettono alle donne di entrare nel mondo del lavoro.
il matrimonio;
la maternità;
la posizione pensionistica delle donne.
L’Italia, in questo contesto ha un punteggio mediamente alto, stabilizzatosi da 4-5 anni al 94,38.
Ma non esiste ancora parità!
L’importanza del ruolo della donna nel mondo del lavoro sembra un fatto ormai pacificamente riconosciuto.
Numerosi sono gli studi che dimostrano come il ruolo femminile, sia in ambito lavorativo, economico, finanziario, sociale e sportivo, abbia un impatto significativo sullo sviluppo e sulla crescita di un Paese.
In Italia l’impianto normativo esistente sembra garantire una sostanziale parità giuridica per quanto riguarda le regole di accesso al lavoro unitamente alle regole di svolgimento dello stesso e da tempo ci si muove in un’ottica di progressiva eliminazione delle discriminazioni fondate sul genere.
Da lungo tempo si combatte contro le disparità tuttora riscontrabili nella pratica e contro il fenomeno della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Disparità sovente riscontrabili in quei contesti ove, a parità di tutele normative, permangono notevoli differenze tra uomini e donne a livello di prospettive di carriera, di qualificazione professionale, di formazione imprenditoriale, di parità di retribuzione.
Tali disparità consentono, purtroppo, di affermare che il cammino sinora percorso è stato contrassegnato da numerosi successi, ma che la strada da percorrere è ancora lunga.
Occorre quindi adottare ulteriori, nuovi e diversi strumenti per superare, nei fatti, effettive disuguaglianze.
E’ infatti indispensabile che nell’ambito di una collettività si lavori tutti insieme, sia sotto il profilo dei cambiamenti culturali, economici e sportivi, sia sotto il profilo dei cambiamenti materiali.
I cambiamenti di breve respiro, sovente tamponano soltanto un’emergenza, quelli più duraturi si possono realizzare solo con il contributo di tutte e di tutti.
Arriveremo in tempi brevi alla parità tra uomini e donne nello sport e nel mondo del lavoro?
“Proprio giorni fa il Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha assicurato che a gennaio 2021 il professionismo dello sport femminile sarà legge. Potrebbe essere una svolta importante che rivoluzionerebbe il mondo dello sport anche se conosciamo tutti i tempi e gli imprevisti della politica.
Ad ogni modo in un momento così difficile e confuso per lo sport in generale si comincia ad intravedere una piccola speranza”.
La parità di genere è strettamente legata alla giustizia sociale e rappresenta uno degli Obietti cardine dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.